Victor è un membro fidato della gang del boss Alphonse, da qualche tempo tenuta sotto scacco da un killer che sembra volerla far fuori pezzo dopo pezzp, uomo dopo uomo. Ma Victor è anche il vicino di casa di Béatrice, una ragazza che francese che vive sola con la madre, incapace di superare il trauma di un incidente stradale che l’ha sfigurata in volto. Béatrice ha visto Victor uccidere un uomo e lo ricatta perché faccia altrettanto con il pirata della strada che l’ha rovinata. Riusciranno i due tormentati assetati di vendetta a chiudere con il passato e a trovare un futuro, magari insieme?
Niels Arden Oplev aveva già lasciato intendere chiaramente quale fosse il suo obiettivo con il suo lavoro più noto (almeno fino a questo nuovo film),Millennium-Uomini che odiano le donne. Un regista danese che sviluppa un thriller, parecchio cerebrale, di un autore svedese con uno stile che si rifà al cinema d’azione di stampo americano, sacrificando l’atmosfera lugubre a favore di qualche scena concitata e carica di ritmo. La risposta gli venne data qualche anno dopo da David Fincher, con la sua versione di Millennium-The girl with the dragon tattoo. America ed Europa si erano scambiati i ruoli, con Fincher che aveva colto gli aspetti più sensibili e tetri della trama, e Oplev che ne aveva riletto l’aspetto più classicamente d’effetto.
ConDead man down, Oplev gioca a carte scoperte. È americano in tutto e per tutto. Fuoco, fiamme, velocità, picchia duro, violenza spettacolare, sparatorie e altro. Il film difetta soprattutto nella sceneggiatura, troppo carica di coincidenze forzate che azzoppano la trama in termini di verosimiglianza, e faticano nel coinvolgere emotivamente lo spettatore. Succedono talmente tante cose “casuali” che il distacco fra i protagonisti e chi guarda è decisamente accentuato. In sé questo non è un difetto, perché altrimenti il cinema cesserebbe di esistere, ma in tutta la prima parte del film Oplev palesa l’intenzione di voler addentrare lo spettatore in una dimensione umana, reale, tramite il personaggio di Noomi Rapace. Sensibile, triste, la protagonista femminile riesce a toccare i tasti giusti per cogliere l’aspetto più malinconico della trama e farcene appropriare. Ma poi quest’intenzione del regista sembra perdersi, non è ben chiaro se volutamente o meno, ma c’è uno stacco netto nel modo di raccontare la storia. Per il resto, va segnalata la presenza di IsabelleHuppert, non eccessivamente fuori luogo, la bravura della suddetta Rapace, e il registro espressivo troppo monocorde di ColinFarrell.
Oplev cerca di fare l’americano, ma non rinuncia per forza di cose al suo background europeo, e questo costituisce un limite. Limite in cui non è mai incappato, ad esempio, il suo connazionale Nicolas Winding Refn, che è riuscito a reinventare un modo europeo di intendere la violenza, trasformandola in cinema d’autore. In buona sostanza ritengo che Oplev abbia sacrificato un aspetto fondamentale: l’ironia. Nel realizzare questo film si è ispirato al cinema del Vecchio continente. Invece doveva attingere aDie Hard. A tutta la saga diDie Hard. Si prende troppo sul serio, e non puoi farlo se vuoi che Colin Farrell faccia irruzione in una villa con un SUV. A volte sembra di guardare un film di Tarantino, ma senza l’ironia di Tarantino. Immaginate qualche scena piena di sangue e pallottole tratta da Kill BilloLe iene o Pulp Fiction, ma senza la carica umoristica di questi film. Ne esce fuori una scena di violenza con il commissario Cattani dellaPiovra.
Riccardo Cammalleri
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