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Taxidrivers Magazine

Zero dark thirty e il cinema di regime

Analisi politica del cinema. Rubrica a cura di Pasquale D’Aiello…

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L’ultimo film della Bigelow ricostruisce i presunti retroscena dell’uccisione di Bin Laden, evidenziando il ruolo decisivo che avrebbe svolto l’uso della tortura nel reperire le informazioni utili alla cattura del capo di Al Quaeda. Sulla base di questa supposta certezza prova ad inchiodare lo spettatore di fronte al dubbio tra il rispetto dei diritti umani per terroristi criminali e la salvezza di migliaia di cittadini innocenti. Per questa sua presa di posizione, la scrittrice femminista Naomi Wolf  l’ha paragonata alla regista Leni Riefenstahl che aveva esaltato la grandezza del regime nazista, realizzando suggestive opere cinematografiche di interessante valenza estetica. Accusandola non solo di essersi schierata a sostegno della tortura,ma anche di aver mentito sulla reale efficacia di questo metodo di indagine, citando a suo sostegno le risultanze prodotte dal famoso giornalista indipendente Robert Fisk e dall’associazione Human Right Watch e sfidandola a mostrare le sue prove. L’attacco della Wolf è forte, diretto e ben documentato e pone la Bigelow fuori dal consesso della civiltà liberale.

Tuttavia, oltre alla questione del rispetto dei diritti umani posta dalla Wolf ne esiste una di maggiore rilevanza che è quella dell’imperialismo, a sostegno del quale non si esita ad utilizzare un altro falso che si concretizza quando si sostiene che le prove circa l’esistenza di armi di distruzioni di massa possedute dall’Iraq fossero il frutto di un mero errore di valutazione, dovuto ad un errato uso delle fonti informative (magari per difetto di tortura). Affermare questo non è solo falso ma anche ridicolo ed offensivo nei confronti di un discreto centro di spionaggio, quale è la CIA.

In definitiva il suo film propone un’aberrante lettura del mondo diviso tra buoni e cattivi, nel recupero della tradizione dei peggiori western in cui lo sterminio degli indiani era una semplice operazione di pulizia. Qui i buoni sono ancora gli yankee mentre il posto dei cattivi è stato rilevato dai terroristi (e tutti quelli che non li combattono), rappresentati esclusivamente come esseri malvagi e subumani che uccidono senza motivazioni e senza provocazioni. E pertanto possono essere torturati e uccisi senza meritare le garanzie della civiltà occidentale che essi intendono distruggere. La Bigelow non appare in alcun modo sfiorata dal sospetto che se gli USA non avessero armato i taliban nella guerra contro l’URSS, invaso strumentalmente per due volte l’Iraq, violato i diritti umani dei prigionieri irakeni, sostenuto Israele nell’oppressione della Palestina, invaso strumentalmente l’Afghanistan e umiliatane la popolazione civile con una guerra incurante dei “danni collaterali” ed altri simili gesti di cortesia, probabilmente non si sarebbero attirato l’odio di una manciata di terroristi e un miliardo di mussulmani. Ed in tutta semplicità, sotto la consueta e abusata etichetta di “guerra al terrorismo”, viene riproposto un vero e proprio scontro di civiltà, che l’occidente deve vincere ricorrendo ad ogni mezzo.

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Una lettura così netta di questo film non deve in alcun modo sorprendere in quanto già in The hurt locker (2009) erano chiaramente definiti i ruoli dei protagonisti di questo scontro. Dove dietro la tematizzazione del potere adrenalinico e drogante della violenza si lasciava scorrere un messaggio politico ben più forte e insidioso. Se a quell’epoca anche parte dell’intellighenzia progressista, affascinata dal nonsense postmodernista, s’era fatta abbindolare dalla regia ritmicamente e iconograficamente spettacolare, ora è impossibile assolvere per via estetica (che, sia detto per inciso, è certamente valida) un’operazione culturalmente e politicamente inaccettabile, in cui i temi politici sono posti in primo piano. Al suo confronto un film come Rambo (1982) di Ted Kotcheff appare enormemente più problematizzato, in cui non ci si azzardava neppure a difendere la giustezza della guerra in Vietnam e ci si limitava a denunciare il “tradimento” compiuto dalla patria nei confronti della lealtà dei veterani. A quel tempo il solo accenno non negativo alla guerra del Vietnam era sembrato un rigurgito della destra reazionaria reaganiana che nel 1981 era salita al potere. Oggi c’è un presidente nero che ha pubblicamente condannato l’uso della tortura. Ma la Bigelow trova il modo di spiegarci che quelle son solo parole di facciata per la grande massa ingenua, la verità, invece, è quella che lei ci svela nel suo film. Ma francamente non era necessario questo ulteriore sforzo di esegesi, ai più avveduti basta ricordare che anche Hitler negava l’esistenza dei campi di concentramento.

Pasquale D’Aiello

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