Avevamo parlato dei neo-noir degli anni Settanta in uno dei primi Double Bill e in quell’occasione erano state citate le due pellicole di cui parliamo in questa edizione, The Long Goodbye (1973) e Night Moves (1975).
The Long Goodbye (da noi Il lungo addio) rientra nel periodo più fortunato di Robert Altman. Tra il 1970 e il 1975 realizza capolavori come MASH (1970), McCabe & Mrs Miller (1971) e Nashville (1975). Nel 1972 invece decide di misurarsi con uno dei classici della letteratura hard-boiled, Il lungo addio, scritto nel 1953 da Raymond Chandler. In realtà, Altman non era stata la prima scelta dei produttori, che dopo aver fatto scrivere la sceneggiatura a Leigh Brackett, erano alla ricerca di un regista. Inizialmente, furono contattati Howard Hawks e Peter Bogdanovich, il quale invece raccomandò Altman. Quest’ultimo fu convinto solo quando la parte di Philip Marlowe venne offerta a Elliott Gould (Robert Mitchum e Lee Marvin erano state le prime scelte). Gould veniva da due anni di pausa forzata a causa del suo carattere non facile, ma raramente una scelta fu più azzeccata. Gould ci regala un Philippe Marlowe memorabile.
Un giorno Marlowe viene contattato dal suo vecchio amico Terry Lennox, che lo prega di dargli un passaggio a Tijuana. Una volta tornato trova la polizia ad aspettarlo, che accusa il suo amico di aver ucciso la moglie. Marlowe non spilla una parola e quando tre giorni dopo si scopre che Terry si è suicidato in Messico, la polizia chiude il caso. Ovviamente, al nostro tutta la faccenda non quadra ed inizia ad indagare. Nel frattempo viene anche ingaggiato da una ricca donna perché ritrovi il marito scrittore alcolizzato (un grande Sterling Hayden). Tra clinche private, gangster e il caso di Terry che sembra collegare il tutto, Marlowe scopre l’amara verità.
La trama dell’adattamento cinematografico differisce in misura sostanziale dal romanzo originale. Brackett (sua anche la sceneggiatura di The Big Sleep di Hawks) si prese non poche libertà con la storia e i personaggi, in particolare per quanto riguarda il finale in cui Marlowe uccide il suo migliore amico (un’azione insolita per Marlowe, radicata però profondamente nella disillusione del decennio), ma anche l’intera sottotrama del gangster di Marty Augustine.
Il lungo addio racconta il cambio sociale e culturale avvenuto tra gli anni Cinquanta e quelli Settanta, quando il genere era ormai quasi estinto. Questo cambiamento si nota soprattutto in Marlowe stesso. Il suo comportamento laconico, nel contesto dei Settanta, appare anacronistico, in particolare nelle scene che sono parte integrante del genere, come ad esempio l’interrogatorio della polizia. Marlowe, che si trascina stanco, con la sigaretta costantemente tra le labbra (don’t bogart…) e a bordo della sua Lincoln Continental del ’48, sembra sempre fuori luogo, ma soprattutto fuori tempo, in un ambiente costantemente solare (bellissima la fotografia di Vilmos Zsigmond, che ricrea i colori pastelli di vecchie cartoline). Questa però è solo l’apparenza, perché come sempre lo sporco sta sotto la superficie.
Marlowe è un perdente, che si aggira per Los Angeles quasi fosse in semiveglia, applicando un codice morale ormai superato, scomparso. Non capisce quasi nulla dell’intera faccenda e quando finalmente lo fa, commette il gesto estremo. Non è più il suo mondo, un mondo molto più violento, rispetto al passato romanticizzato. La lealtà e l’amicizia non contano più nulla. Anche il suo gatto lo ignora, se non gli compra il cibo giusto.
The Long Goodbye è attraversato da un mood sospeso (bellissima e insolita la colonna sonora, composta da due soli motivi riarrangiati in maniera diversa in base alle scene, di John Williams e Johnny Mecer), che rispecchia perfettamente lo stato del suo protagonista. Sullo sfondo c’è sempre il caso Watergate, esploso in quei mesi e la conseguente sfiducia in tutto. Come tanti grandi film, all’epoca non se lo filò nessuno e quasi tutta la critica gli fu ostile. The Long Goodbye invece è tra il capolavori di Altman e pochi altri registi avrebbero potuto regalarci i primi dieci minuti iniziali.
Il film è una revisione che spoglia il genere del suo assunto centrale, ossia il saper riconoscere sempre e comunque il bene dal male. Il bianco e nero di vent’anni prima però, nei Settanta si era trasformato in una zona grigia.
Nella stessa zona è ambientato anche Night Moves (1975), ad opinione di chi scrive, il film più bello di Arthur Penn (si, anche più di Bonnie & Clyde).
Harry Moseby, ex-giocatore di football professionista, conduce una piccola agenzia d’investigazioni a Los Angeles. I suoi casi consistono soprattutto nello smascherare tradimenti coniugali. Il suo lavoro gli piace ed è pure un buon detective. Quando scopre che la moglie lo tradisce, pur di non affrontare l’argomento, decide di accettare un incarico, che lo porta in Florida. L’attrice Arlene Iverson, infatti lo ingaggia per ritrovare Delly (una Melanie Griffith diciassettenne che si concede alcuni nudi fugaci, ma che non passano inosservati) la figlia minorenne, nonché erede di svariati milioni. Arrivato nei Florida Keys, ritrova velocemente la ragazza, conosce il padre adottivo e la sua compagna Paula, con la quale ha una breve storia. Il ritrovamento della ragazza però è solo l’inizio di un caso molto più intricato…
Se il film di Altman è avvolto da un pessimismo totale, in Night Moves c’è forse una disperazione ancora maggiore. La disillusione e l’amarezza però sono la componete comune ad entrambe le pellicole. I due detective hanno i loro limiti, le loro debolezze, ma rispetto a Marlowe, Harry (Gene Hackman, superlativo come sempre in quel periodo) ha un codice d’onore più labile. L’investigatore hard-boiled di una volta però non c’è più, così come non c’è più l’America di una volta.
Night Moves è un’istantanea del post-Watergate, ma anche del post-68 (gli omicidi politici di quegli anni, la guerra del Vietnam, ancorati nella memoria collettiva nazionale). Ognuno ha una propria agenda, un proprio obbiettivo e Harry, come Marlowe, combatte inutilmente per cambiare le cose.
Come anche nel caso di Altman, Night Moves cade alla fine del ciclo più fortunato di Penn, che prima aveva diretto Gangster Story (1969), Alice’s Restaurant (1969) e Little Big Man (1970), tutte pellicole che hanno catturato lo spirito della controcultura e il suo collasso. Un film fondamentale degli anni Settanta.
PAOLO GILLI
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