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Pordenone Docs Fest

‘Soviet Barbara’, la storia di Ragnar Kjartansson a Mosca

Cosa hanno in comune un artista islandese, una soap opera americana e la dissoluzione dell’Unione Sovietica?

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Nel 1986 Michail Gorbačëv, segretario generale dell’URSS, incontra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan a Reykjavík, la capitale dell’Islanda. È l’inizio della fine della Guerra Fredda.

Nel 1991 crolla l’Unione Sovietica e tutto quello che era stata la Russia comunista.

Poche settimane dopo va per la prima volta in onda sulla televisione russa la soap opera americana Santa Barbara: il capitalismo occidentale entra prepotente nelle case sovietiche diventando in fretta un fenomeno culturale gigantesco.

Soviet Barbara parla di questo e di molto, molto altro.

In anteprima nazionale al Pordenone Docs Fest, l’ultimo documentario di Gaukur Úlfarsson (Gnarr, Thirst) è un vortice camp che collega lungo un filo rosso la Russia di ieri e di oggi, l’arte performativa e il ruolo dell’artista e della sua arte nel panorama geopolitico del nostro tempo.

Ma andiamo con ordine.

“Sto facendo qualcosa di moralmente ambiguo ma artisticamente eccitante”

Soviet Barbara, come intuibile dal suo sottotitolo (the story of Ragnar Kjartansson in Moscow), è in primo luogo l’avventura russa dell’artista visuale islandese Ragnar Kjartansson. Diventato famoso per il suo corpus che unisce la secolare tradizione del tableau vivant a una visione ironica, minimalista e dissacrante della società contemporanea, quando gli viene offerta la possibilità di una mostra personale a Mosca, con apertura nel 2022, Ragnar risponde alla sfida come con ogni impresa artistica della sua vita: con entusiasmo naïf e una grande dose di umorismo.

Ragnar è entusiasta della prova di riempire il nuovo e gigantesco spazio espositivo moscovita, concentrandosi più sulla vicinanza dell’edificio alla “Cattedrale delle Pussy Riot”, le più influenti performance artists della nostra epoca, che all’inquieta prossimità con il Cremlino.

E c’è una cosa che vuole fare più di tutte Ragnar a Mosca. Riportare in vita, in lingua russa, live, ogni giorno, per tutti i giorni dell’esposizione, Santa Barbara.

Santa Barbara: nell’Occidente capitalista tutti assomigliano a Donald Trump

Santa Barbara è stata una soap opera statunitense andata in onda in patria dalla metà degli anni ’80: la serie, creata da Bridget e Jerome Dobson, racconta gli intrighi di palazzo e gli scontri di due ricche famiglie dell’omonima città californiana. Nel mondo di Santa Barbara, una serie tv creata dalla nipote del primo deputato socialista mai eletto in USA, l’Occidente è un luogo di opulenza e melodramma, di scontri verbali davanti a bottiglie di champagne, di interni in mogano e abiti griffati.

Il mondo al tramonto dell’Unione Sovietica assomiglia un po’ tutto alla vita di Donald Trump.

Gli spettatori russi  ne diventano fan sfegatati.

Soviet Barbara, nell’idea originale del documentario, era questo: raccontare l’ossessione russa per un immaginario radicale, che annulla e degrada tutto quello con cui un popolo è cresciuto e in cui ha creduto per quasi settant’anni.

Ma poi, come spesso accade nelle vie del cinema del reale, la contemporaneità è entrata nella vita cinematografica. È arrivata la guerra.

Nella prossima puntata di Soviet Barbara: la guerra

All’inizio le tensioni al confine tra Bielorussia e Polonia e le minacce russe all’Ucraina entrano nel film in maniera laterale: visivamente e diegeticamente l’attualità è un rumore di fondo. Il focus è sullo spazio artistico che Ragnar deve riempire: una cattedrale bianca che lascia il mondo fuori dalla sua porta.

Eppure, tutto il documentario scalcia per portare lo spettatore verso una questione scivolosa e di difficile risoluzione: qual è il ruolo dell’arte nella politica? Cosa è concesso fare ad un artista? Di quanta politica ha bisogno un’opera per essere considerata arte?

E ancora: quanta legittimità può avere la critica velata alla caduta dell’impero sovietico e dello spirito comunista se essa arriva da un artista straniero socialista?

Mentre Ragnar cerca di rispondere con bonaria umiltà ma anche con una giusta dose di furberia, la politica e la realtà russa, di ieri come di oggi, sono troppo ingombranti e prendono tutto lo spazio della narrazione.

Scoppia la guerra in Ucraina e Ragnar chiude la mostra.

Quello che poteva essere un finale troncato dalle brutalità del presente diventa però una capovolta degna di Ariosto. Ragnar aiuta le Pussy Riot a scappare dalla Russia ormai soffocante e invivibile per qualsiasi disertore di Putin. Le artiste, in Islanda, cureranno una gigantesca mostra monografica delle loro performance.

Un documentario su un islandese socialista che vuole ricreare una soap opera americana degli anni ‘80 a Mosca diventa la storia di un collettivo dissidente russo che crea la più importante mostra del 2022 a Reykjavík.

Soap operas, documentari d’arte, parenti socialisti e le Pussy Riot

Soviet Barbara è un’opera complessa perché stratificata, nel racconto e nello stile.

È un documentario d’arte che non prende sul serio i documentari d’arte, una soap opera che tratta in maniera serissima il genere e le sue conseguenze sull’immaginario di un paese.

È una storia polifonica che racconta un’epoca passata e presente, lo stato dell’arte performativa in Russia ma anche fuori dal paese sovietico.

Ma Soviet Barbara è soprattutto una riflessione sul controllo e sulla casualità del vivere, sui rapporti di potere e sulla linea sottile tra quello che è effettivamente in nostro potere e ciò che non lo è.

Ragnar decide di ricreare una serie tv americana nel paese che l’ha amata, lo stesso che ha inventato l’anticapitalismo. Decide anche però di non palesare la cifra politica e dissidente dell’opera con critici e giornalisti. In questo Ragnar è in controllo.

Ma l’artista non può che sottostare alle bizzarre censure sparse per lo spazio espositivo che il Paese che lo ospita impone lui e, soprattutto, Ragnar non può prevedere la guerra. In questo siamo tutti, ancora, inermi.

Soviet Barbara è, come gli artisti e il paese che rappresenta, un documentario ironico e divisivo, umano senza cadere nel patetico. Multiforme, come l’arte.

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  • Anno: 2023
  • Durata: 90'
  • Genere: documentario
  • Nazionalita: Islanda
  • Regia: Gaukur Úlfarsson