Testament – La storia di Mosè è una miniserie, da poco approdata su Netflix, che ripercorre la storia personale del noto liberatore del popolo d’Israele. Tra gli attori protagonisti: Avi Azulay, nel ruolo di Mosè, Mehmet Kurtulus nel ruolo del faraone Ramessu, Sami Fekkak, Monty Ben. Alla regia, Benjamin Ross.
Testament – La storia di Mosè, la trama
Alle origini della storia e della religione, nel lontano Egitto, ha inizio la vicenda umana di Mosè. Salvato per puro caso, sulle rive del Nilo, dalla figlia del Faraone, ancora in fasce, Mosè può cominciare il viaggio della vita. Il suo destino è già scritto, quello cioè di diventare un principe.
Eppure, niente va come previsto: Mosè, ormai adulto, riceve la chiamata di Dio sul monte Sinai, e da quel momento in avanti non potrà mai più sottrarsi a tale impegno di fede. Sarà la guida che porterà il popolo ebraico fuori dalla schiavitù in Egitto, con l’obiettivo di condurlo alla Terra promessa. Un luogo che né lui né la moglie vedranno mai, ma che sarà lo spazio di vita e di riscatto dei loro discendenti.
La questione della veridicità: dalla religione ai fatti storici
Testament – La storia di Mosè non risponde al genere del documentario: non vi è alcun intento di ricostruzione storica, archeologica o religiosa alla sua base. Si può notare, invece, un intento di natura narrativa. Raccontare la storia della nascita, della vita e della missione di Mosè, incluso l’impatto che egli ha avuto sulla storia del suo popolo, attraverso molteplici interpretazioni e sfumature. A dare un’indicazione in tal senso è la stessa miniserie, proprio al principio della prima puntata:
“La storia di Mosè e dell’esodo, con l’aggiunta di opinioni di storici e teologi. Da non intendere con verità assolute”
È una dichiarazione di intenti a priori, che meglio spiega l’obiettivo e le modalità di lavoro del regista. Nel corso delle tre puntate di cui è composta la serie (di circa sessanta minuti ciascuna) si possono vedere più interventi di storici e teologi, che ripercorrono la storia di Mosè, commentandone i momenti salienti. Ci sono opinioni discordanti e pareri comuni, ma quello che conta non è la fedeltà assoluta alla storia o alla religione: prevale costantemente l’intento narrativo.
Il tema dell’identità: Mosè a metà strada tra amico e nemico
Mosè, dall’inizio della miniserie fino alla sua conclusione, non riesce a risolvere un enigma: chi è costui? Amico degli Egizi, o più vicino al popolo ebraico? Sempre a metà strada tra queste due (forti) identità, Mosè sceglie di essere profeta e pastore. Una figura, dunque, che rimane al di sopra, sia dei fragili equilibri tra le due etnie, sia della realtà terrena. Infatti, avvicinandosi alla dimensione della fede ed alla chiamata di Dio, cessa di far parte in toto del mondo umano, per trascenderlo. Solo in questo modo potrà essere di vero aiuto al suo popolo.
“Non sono uno di loro (gli Egizi), come non sono uno di voi (il popolo ebraico). Devo scoprire chi sono: la montagna mi chiama, devo andarci”
È la fede in Dio – o meglio, la sottomissione alla sua chiamata – nella forma della montagna, che regala a Mosè, per la prima volta, una sua propria identità. Ed è ancora la montagna, metonimia di Dio, ad elargire identità al popolo ebraico, che ne è privo ormai da tempo. Questo tortuoso processo diviene totale e piena libertà, nello spazio ideale della Terra promessa.
“Una delle capacità di Mosè è quella di creare legami con popoli e identità diverse. Oltre ad essere colui che libera gli israeliti”
Questo il commento di uno storico durante la prima puntata della miniserie. Da un atto di liberazione dalla schiavitù ha inizio un lungo e doloroso cammino di ricerca di identità da parte del popolo ebraico, con a guida Mosè nel ruolo di testimone fra due culture, che – effettivamente – prosegue ancora oggi.
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