
Anno: 2012
Durata: 118’
Genere: Drammatico
Nazionalità: Giappone
Regia: Koji Wakamatsu
Un millennio di estasi… così Koji Wakamatsu introduce Sennen no Yuraku, presente dentro Orizzonti (sezione-parallela-speculare nel più lecito osare visivo e narrativo, rispetto al Concorso Ufficiale). Con questa fiaba-filastrocca della vita (ispirata da un racconto di Kenji Nakagami, di discendenza Buraku, uno tra i grandi scrittori giapponesi del Novecento), Wakamatsu abbassa la pressione (ma non la presa), riducendo la tensione della dirompente forza estetico-narrativa del suo cinema, sempre dritto, ciononostante, alla propria meta, qui trasposta nel ciclo di nascita e morte della stirpe dei Nakamoto, segnata nel sangue dal proprio destino.
Circondato da una natura dai richiami ancestrali, il villaggio isolato e idealizzato di una comunità di burakumin della regione di Kishu diventa il luogo-simbolo della vita vissuta fino alla morte (dove i due confini, sicuri, ne delimitano il vissuto ignoto a cui ciascun essere umano va incontro). Esistono ancora in angoli remoti del genere piccoli villaggi i cui vicoli accolgono gruppi di ‘discriminati’ chiamati dai Giapponesi Roji. Di lunga tradizione, legati alla struttura imperiale, destinati a svolgere lavori a diretto contatto con la morte, con il sangue, (macellai, conciatori, becchini), incarnano ambo i lati della stessa medaglia umana, recanti insieme la nobiltà e il profano.
Oryu (il personaggio più riuscito del film) è la levatrice del vicolo-ghetto nel quale tali fuori casta venivano emarginati. Grembo vivente, che fa nascere e accoglie-raccoglie i fati di ogni vita che vede la luce, insieme al monaco Reijo, ormai vecchia e stanca, rimembra il suo passato e il destino dei tre Nakamoto. Periti in piena giovinezza, vittime di un ‘demone-maledizione’ sovrastante, indomabile, corruttore fino all’estremo sacrificio: il saziarsi quotidiano di estasi, di cui Hanzo, il primo, ne assapora il gusto nel sesso, grazie alla magnetica bellezza di cui è dotato. La caccia alle donne e il piacere che ne trae cozzano con la necessaria ‘stabilità’ sociale, con l’indispensabile ordine che evita il perdersi perpetuo nel caos, nell’assoluta indeterminatezza.

Hanzo tenta di aggrapparsi all’ordine, alla stabilità, ma invano. Perirà, inevitabilmente, per mano della sua stessa sete. Oryu non potrà far altro che pregare ed assistere, impotente, al compiersi di una necessità già scritta nella sua carne e in quella di tutti i Nakamoto. Mihoshi, cugino di Hanzo, è tormentato, reso inquieto dall’immobilismo e dalla stasi di un ordine incapace di farlo vibrare. Non trova pace se non procurandosi e vivendo forti emozioni. Le donne non bastano: ha bisogno di droghe, di furti, che lo tengono in costante eccitazione. Constatata l’impossibilità sociale di praticare un’estasi quotidiana, si fa artefice della propria fine, trovandovi la reale pace. Tatsuo è il più giovane e mite dei Nakamoto, ancora ignoto di se stesso, nella latenza della sua condizione. Oryu gli aprirà il varco in una rivelazione per essa stessa traumatica nella concessione di cui si macchia, concessione-tensione ardentemente parte della donna (e di tutti noi), resa palpabile con maestria da Wakamatsu e con abile capacità di resa dalla sua interprete (Shinobu Terajima): l’oscillare tra la tensione al perdersi e il richiamo all’ordine, dentro un ‘incesto’ che è immediatamente palese nel pensiero, confermato da un cedimento paradossalmente non provocato, se non indirettamente e inconsapevolmente dal giovane Tatsuo.
Wakamatsu sceglie di depotenziare visivamente tale miscuglio di tensioni aggrovigliate, così saldamente attaccate alla sacralità della nascita e dello scorrere dell’esistere, usando una tenuità di tono di cui tuttavia il digitale ne marca l’atmosfera ‘pornografica’ di un visivo iper-reale dentro una costruzione pregna di mito, nonostante in essa appena pochi frammenti ardenti ci vengano concessi di scorgere. Eppure la ‘terrificante verità’ non per questo appare meno evidente. Siamo esseri mortali a caccia di estasi, che temiamo perché ci affossa nel caos ma a cui ambiamo con tutti noi stessi perché a quel caos apparteniamo.
Maria Cera