
“Il mio risveglio intellettuale e spirituale è stato in un certo senso collegato ai dipinti delle grotte del Paleolitico. All’età di dodici anni vidi un libro nella vetrina di una libreria con l’immagine di un cavallo di Lascaux in copertina, e mi prese un’eccitazione indescrivibile: volevo quel libro, dovevo averlo. Visto che la paghetta era solo di due marchi al mese, cominciai a lavorare come raccattapalle sui campi da tennis e presi in prestito dei soldi dai miei fratelli. Almeno una volta alla settimana controllavo, col cuore in gola, se quel libro era ancora lì. A quanto pare credevo che fosse l’unico esemplare al mondo. Mi ci vollero più di sei mesi prima di poter acquistare e aprire il libro, e quel brivido di meraviglia e soggezione non mi ha mai abbandonato”.
Il giovane Werner Herzog ben prometteva quanto a senso di meraviglia, curiosità e volontà di soddisfacimento-riempimento delle proprie tensioni-desideri. È divenuto un cineasta di fama mondiale, stupendo tutti per la naturalezza con la quale ha sempre sposato e soddisfatto le proprie attenzioni, troppo ‘sovraumane’ nella tensione, nel dispiegamento pratico-ideale che la loro realizzazione sottendeva. Ci ha insegnato ad espanderci letteralmente dentro la vita, realizzando e alimentando, (nel caos che, nonostante l’uomo si illuda di aver dominato o represso, è sempre dentro e fuori di noi), i propri sogni, le proprie visioni: “I miei personaggi sembrano degli outsider, ma è il resto ad essere outsider”, ha dichiarato.
Abbagliato-stupito-sconvolto da una natura con la quale è entrato in contatto diretto sin dalla tenera infanzia (a causa della Seconda Guerra Mondiale, la sua famiglia si stabilì in un piccolo villaggio della Baviera completamente isolato senza cinema, radio, televisione, telefono, automobile, e in tale ‘stato di purezza’ visse fino all’età di 12 anni), ne ha maturato col tempo e la frequentazione (viaggiatore instancabile, camminatore indefesso, ha esplorato e indagato con la sua macchina da presa: deserto – Fata Morgana (1970) – giungla amazzonica – Aguirre, furore di Dio (1972) e Fitzcarraldo (1982) –, antartide – Encounters at the End of the World, 2007) una visione animista-‘antropomorfa’, scovando-rappresentando-rendendo una spiritualità che è disvelamento dell’’orrore’, del conflitto che perpetuamente anima la natura e, di riflesso, l’essere umano. La giungla amazzonica, teatro dei suoi due deliri più alti quanto a sforzi simbolici e pratici di resa, è l’emblema dello status universale della vita: “Una visione si era radicata in me: l’immagine di un grande battello a vapore su di una montagna, la barca che si trascina tra i fumi grazie alla sua stessa forza, risalendo un ripido pendio nel cuore della giungla, e in mezzo a una natura che annienta senza distinzione deboli e forti, la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli uccelli. O meglio, le grida degli uccelli perché in questa terra incompiuta e abbandonata da dio nella sua ira, gli uccelli non cantano, gridano di dolore, e colossali alberi si artigliano uno con l’altro come in una gigantomachia, da orizzonte ad orizzonte, tra le esalazioni di una creazione che qui non si è ancora conclusa”[1].

Di tale incompiutezza-imperfezione l’uomo è innegabilmente, e suo malgrado, elemento. Ed Herzog esamina a fondo tale rapporto di reciproca monchezza, di perenne e inarrestabile travaglio, concentrando l’attenzione su esseri umani che, per diverse ragioni, si staccano dagli schemi di tenuta e ‘resa’ collettiva necessari all’uomo per sopravvivere: folli sognatori, lanciati in ‘insane’ avventure alla ricerca costante del sublime, dell’unione al caos, per trovare finalmente pace nel non senso di cui ci si sente parte, oppure esseri ‘illuminati’, colti da una innocenza libera, scevri da sovrastrutture, incarnati nel simbolo herzoghiano per eccellenza: quel Kaspar Hauser che, isolato dal mondo civile, vi approda già adulto, divenendo lo scandalo sociale per un modo di ragionare e pensare troppo incontaminato, inammissibile per una collettività votata all’ordine, unico esorcismo contro la furia cieca, paralizzante, dell’indeterminabile. A proposito degli esseri umani su cui concentra la sua attenzione, Herzog aggiunge: « Penso che i personaggi dei miei film siano quasi degli eroi. Delle figure eroiche. Eroi nella misura in cui superano le loro condizioni, escono dal proprio schema e vanno ben oltre le loro possibilità, prima di fallire di fronte a questa enorme sfida. È un comportamento che ci permette di salvaguardare la nostra dignità. Per molti aspetti la creazione non è perfetta, ma non si è tenuti ad accettarla così com’è».
In questo viaggio-rivelazione compiuto in innumerevoli anni, col peso che si avverte solo nel mutamento del corpo, Werner Herzog ci ha donato di recente un’altra incommensurabile scoperta: il confronto con le nostre origini, con il concetto di arte, con il futuro dell’uomo. Cave of forgotten dreams, estatico documentario del 2010, è prima (e unica, a detta di Herzog), propria esperienza dell’impiego del 3D. Un impiego di assoluto senso e valore, ponte tecnico-tecnologico e simbiotico (tra passatopresentefuturo dell’uomo) con le prime e più antiche rappresentazioni pittoriche rinvenute sinora. La grotta Chauvet (dal nome del suo scopritore, lo speleologo Jean-Marie Chauvet), a Vallon-Pont d’Arc, nel sud della Francia, anfratto-bunker scoperto casualmente appena nel 1994, auto preservatosi fortuitamente grazie ad una frana che l’aveva reso impermeabile a vento, pioggia, calore, è lo scrigno dei nostri sogni primordiali di 32000 anni fa. Accessibile solo a pochissimi studiosi, dato che variazioni di temperatura e tasso di umidità potrebbero compromettere quella fissità interna-interiore indispensabile alla sua preservazione, Chauvet ha aperto i propri anfratti all’unico cineasta che sarebbe stato capace di trasmettercene il fascino e il mistero, alla luce di tutto ciò che l’umanità è stata dopo ed oltre quel momento.

Incuriosito da un articolo del New Yorker sul blindato covo delle pitture più ancestrali mai rinvenute, ed ottenuto dal Ministro francese della Cultura il permesso di filmare l’interno della grotta, Herzog e la sua piccola troupe si sottopongono a naturali restrizioni pratiche: corazzati dentro elmetti e tute, sei giorni per filmare, 4 ore al giorno massimo di riprese, passaggio unico e obbligato su di una passerella di 60 cm, il solo calpestamento che passi umani possano compiere nel caveau-madreperla, tra luccichii-lucidità tattili di stalattiti e ossa fossili inestricabili da quella terra, ormai tutt’uno in essa. Il risultato va aldilà di qualunque aspettativa si riesca/voglia immaginare. Il sottovuoto del buio e del silenzio tranciano di netto e immediatamente il legame con la nostra realtà. Il 3D sprigiona una potenza di immedesimazione capace di renderci, contemporaneamente, la distanza da un mondo perduto, lontanissimo come la placenta che ci ha contenuti e la cui dimora abbiamo ormai dimenticato, e insieme la sua estrema appartenenza-vicinanza: una saldezza così intensa a noi stessi, come un arto tagliato di cui sentiamo l’estrema mancanza e necessità. Sembra che quella caverna ci abbia contenuti da sempre, e la memoria perduta si sbalordisce, – ‘inorridisce’ incredula – per la modernità dei dipinti che le vengono rivelati: esseri umani di 32000 anni fa riproducevano sul duro e sinuoso piano di roccia (sfruttandolo volutamente per cercare il movimento), non schizzi ma compiuta interiorità, persino dinamica-cinetica… Bellissime criniere di cavalli sovrapposti in sequenza da fotogramma, il cui nitrito invisibile ci appare immediatamente percepito nei musi semiaperti in un virtuale galoppo, lo sdoppiarsi-triplicarsi di corna e zampe di bufali, teste di leoni preistorici eleganti e fieri nel profilo che ci offrono, animali in lotta, di cui afferriamo il cozzare di corna, la tensione delle masse in movimento. Una parzialmente visibile (raggiungibile dalla piccola telecamera appena la lunghezza per percepirne il senso) immagine antropomorfa fissata sulla punta di una stalattite: un toro, donna dal ventre in giù.

Sovrapposizioni di piani pittorici, migliaia di anni distanti gli uni dagli altri, compressi dentro un’unità di proiezioni di miti e sogni. Miti e sogni identici ai nostri, continui in un’eredità che adesso ci appare lampante come non mai e di cui ancora oggi conteniamo-tratteniamo il mistero. All’esterno della cavea-incoscio primordiale dell’uomo, questo scrigno prezioso è delimitato da un arco roccioso immerso in un fiume: una porta bucolica che la natura pare aver costruito per indicarci l’accesso a noi stessi. Anche in questo excursus preistorico non mancano singolari personaggi che Herzog irrimediabilmente cattura: il giovane archeologo ex giocoliere circense, l’’olfattologo’-profumiere, appassionato di speleologia a caccia, col suo naso, di nuovi anfratti… La chiusura del cerchio, il dubbio insinuatosi ad inizio proiezione e maturato-identificato nel corso della narrazione: l’aver smarrito la via, l’essere diventati altro da quell’uomo, da quei sogni impressi sulla roccia, pare schiudersi nel preveggente-illuminato spunto che il cineasta tedesco ci offre emblematicamente-simbolicamente: un ecosistema tropicale artificialmente costruito a pochi km proprio dalla grotta Chauvet, prodotto dal calore in eccesso di una centrale nucleare.
Un altro primordio, fitto di vapori e vegetazione, popolato da coccodrilli albini il cui sguardo sarà il futuro occhio dal quale la nuova umanità ci guarderà?
Maria Cera
[1] Brano tratto da W.Herzog, La conquista dell’Inutile, Oscar Mondadori, 2007