L’immagine spesso ha più memoria e più avvenire di colui che la guarda.
Comincia con questa frase di Georges Didi-Huberman l’affascinante documentario di Fabio Mollo, Semidei, presentato nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori, nell’Ottantesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Semidei non è solo un documentario sui Bronzi di Riace, ma sulla Calabria stessa. Su una terra bellissima e ricca di storia che ha concentrato su di sé molti dei mali del Sud e dell’Italia. Terra di migrazioni, di criminalità organizzata, di abbandono da parte dello Stato, del dramma collettivo di giovani che vanno via, ma che non smettono mai di sognare la sua rinascita e la sua natura aspra, selvaggia e dolcissima di paesaggi mozzafiato.
I Bronzi di Riace diventano, in Semidei, e nell’immaginario collettivo dei calabresi, il simbolo del riscatto, il correlativo oggettivo che riappare dal mare della forza di un popolo, che si sublima in quella perfezione di potenza antica che incarna tutta la loro cultura.
Semidei è un’opera visionaria, per come riesce ad alternare materiali di repertorio, campi lunghi di stupefacenti scenari naturali che sembrano interrogarci nella loro meraviglia e interviste, che non solo ricostruiscono la storia artistica dei Bronzi di Riace, ma anche la suggestione popolare per queste figure di guerrieri, contestualizzandola negli eventi che hanno attraversato la Calabria dagli anni del loro ritrovamento: dalle proteste di piazza fino alle tragedie di altri migranti, questa volta in arrivo da un altro Sud del mondo, ancor più povero e martoriato.
Per entrare più profondamente nel mondo di Semidei e nelle sue scelte stilistiche, abbiamo intervistato il regista Fabio Mollo.
Com’è nato e come sei stato coinvolto nel progetto di Semidei?
Semidei è nato da una ricorrenza importante, il cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace, dalla volontà di raccontarlo. Da tempo giravo intorno alla suggestione suscitata in me da queste due statue. Michele Geria, direttore del Reggio Calabria FilmFest, è stata la prima persona a coinvolgermi nell’idea di farne un progetto cinematografico. Cui è seguito l’interessamento da parte di Palomar, in contatto con Giuseppe Smorto e Massimo Razzi, che hanno scritto il soggetto iniziale da cui è partito tutto. Fondamentale, infine, è stato il sostegno della Calabria Film Commission, che ha fortemente creduto in questo film.
Fabio Mollo
Semidei non è solo un film sui Bronzi di Riace.
Non volevamo fare un documentario che semplicemente commemorasse l’evento storico o che ci parlasse dei Bronzi di Riace solo dal punto di vista artistico. Era chiara l’idea di provare a creare un film che raccontasse il passato, ma anche il presente e, perché no, intravedesse il futuro. Ci siamo resi conto che i Bronzi di Riace, oltre a essere due statue, descrivono una storia importante, che comincia 2500 anni fa, sull’acropoli di Argo, dove sono stati realizzati ed esposti, e continua ancora oggi. L’idea era tentare di raccontare il presente attraverso la Storia, unendo la vicenda di questi due guerrieri antichi a personaggi reali di oggi.
I materiali di repertorio di Semidei ricostruiscono un’Italia che sembra antica. Quanto è cambiata la Calabria da allora?
Per alcuni versi, è cambiata tantissimo, perché la Calabria di oggi ha dentro una volontà di mutamento che vibra e questo lo vedo principalmente nelle nuove generazioni. Non solo in chi è andato fuori ed è tornato con l’idea precisa di creare qualcosa sul territorio, ma nelle nuove generazioni che iniziano a pensare di restare, mentre la Calabria è sempre stata terra di migrazioni. Io stesso sono andato via a diciotto anni, come dico nel film. Per un altro verso, però, mi sento di dire che questa terra è rimasta anche un po’ immutata, non solo in confronto a cinquant’anni fa, ma anche rispetto alla Calabria grecanica, quella che è stata fondata dai Greci. Io credo che tutt’oggi viviamo quell’imprinting, non solo artistico/culturale, ma come sguardo sulla vita. È quella parte di noi più mistica, legata in modo viscerale, ancestrale, alla terra, al territorio. Un’altra cosa è cambiata: negli anni ‘70, a Reggio Calabria ci sono stati dei moti, di cui parlo in Semidei, una pagina molto dolorosa, perché è stata una vera guerra civile che, però, all’inizio, nasceva come una protesta, una forma di ribellione a uno Stato che voleva un Sud ridotto ai minimi termini. Quella di Reggio Calabria fu l’ultima di una serie di piccole rivoluzioni che avevano agitato tutto il Sud. Mi piacerebbe prendere in prestito quello spirito, quella voglia di ribellarsi, di scendere in piazza e dimostrare le nostre esigenze, d’imporsi, in un certo senso, allo Stato, anziché subirlo.
Un aspetto stupefacente di Semidei è quanto evidenzi che i Bronzi di Riace abbiano colpito non solo gli studiosi, ma proprio l’immaginazione popolare. Soprattutto all’inizio del loro ritrovamento, racconti come siano state considerate statue di santi, come Cosma e Damiano.
Anche a me questa cosa ha emozionato tanto. Si riconnette a quanto ancora viviamo quell’elemento mistico ereditato dal mondo greco, quella forma di realismo magico che si sente in tutto il Sud del mondo e anche in Calabria. Quando ho letto questa storia, quando le persone me l’hanno raccontata, non l’ho liquidata come un’assurdità, ma è una visione a cui ho finito per aderire, perché faccio parte di quel popolo. Quando parlo del ritrovamento dei Bronzi, ogni tanto uso la parola apparizione: i bronzi sono apparsi nel 1972 sulle coste di Riace, perché sono stati un po’ come l’apparizione di una divinità. Sono sì delle statue, ma evocano un messaggio, nato nell’antica Grecia, che ha attraversato il tempo e lo spazio. Dalla Grecia del V secolo a.C. sono passate a Roma e poi sono rimaste sott’acqua, in una specie di oblio durato secoli. Per riapparire senza una traccia concreta del loro inabissamento. Non c’è alcun relitto della nave, non si trovano neanche i pezzi di vasi con cui si sa che le statue hanno viaggiato. È come se c’è qualcosa di sovrannaturale nell’arrivo di quei Bronzi, proprio a Riace, in quella fuoriuscita dal mare. Chi guarda i Bronzi, chi entra in quella stanza del Museo di Reggio Calabria, che creda in questa forma divina delle statue o no, sono sicuro che senta quell’aura che le statue evocano. E che non è molto lontana, secondo me, dalla percezione di un fedele che si trova di fronte alla statua di un santo, di una Madonna e che si mette a pregare.
Che cos’altro ci racconta ancora il mondo antico da cui arrivano i Bronzi di Riace?
Quello che mi ha sorpreso, e che studiando per il film ho appreso, è che i Bronzi fanno parte di un gruppo statuario che racconta dei Sette contro Tebe. E descrive il momento preciso in cui Eteocle e Polinice, due fratelli, si stanno per scontrare, sapendo che moriranno entrambi. È una specie di protocinema, una forma di racconto. Queste due statue sono un po’ come un fotogramma. L’artista che li ha creati voleva raccontare l’atrocità, e l’inutilità, delle guerre fratricide, che porteranno all’estinzione dell’essere umano. Questo era il messaggio che portavano i Bronzi, esattamente il messaggio di cui abbiamo bisogno noi oggi nella realtà che stiamo vivendo.
Come ti sei diviso il lavoro con la coregista Alessandra Cataleta?
Io e Alessandra Cataleta ci conosciamo da vent’anni, abbiamo fatto un percorso comune da studenti di cinema. Alessandra Cataleta lavora da sempre sul documentario, la sua passione è il cinema del reale. Lei si è dedicata alla ricerca dei personaggi da intervistare, soprattutto nella prima fase. Poi, di fatto, abbiamo condiviso le riprese, anche perché i giorni a disposizione erano pochi, così molte cose le abbiamo girate in parallelo, contemporaneamente.
Il mare mi sembra coprotagonista di Semidei, insieme ai Bronzi di Riace, e la parte finale del film è dedicata ad altri, più tragici, ritrovamenti dalle acque, come la strage di Cutro.
Ci ho pensato molto a lungo se inserirla nel film, non volevo cadere nella retorica o affastellare troppe cose, ma, alla fine, ci siamo resi conto che Cutro faceva parte di questa storia, perché è il risultato di un’altra di quelle guerre fratricide. Differente, però, da quella russo/ucraina, su cui siamo informati tutti i giorni e da cui immediatamente abbiamo accolto i rifugiati in Italia, come racconta anche uno dei personaggi di Semidei. Quelli di Cutro sono vittime di una delle tantissime altre guerre che stanno al di là del Mediterraneo, ma che non conosciamo e da cui non accogliamo quasi nessuno. È stato difficile salvare i superstiti dal mare dopo il naufragio e ho sentito che il messaggio dei Bronzi, nel caso di Cutro, diventava ancora più urgente. C’era una sorta di speciale vicinanza con il racconto dei due Bronzi, che Stefano Mariottini stesso, il ritrovatore ufficiale, definisce degli “affogati”, come degli uomini che si trovavano sott’acqua e che lui ha tirato fuori. Allo stesso tempo, nonostante Cutro sia una terribile tragedia, sottolinea uno degli elementi che più amo dei calabresi: il loro istinto all’ospitalità e al salvataggio. Una delle cose che più mi ha colpito, di quella storia, sono stati tutti quegli uomini e quelle donne che non hanno esitato a buttarsi in mare per provare a recuperare più persone possibili o raccogliere i corpi di chi non ce l’aveva fatta. Lo spirito dei calabresi ha dimostrato questa forza, questa bellezza fraterna nell’orrore e ho sentito che, in questo senso, il messaggio dei Bronzi di Riace, in qualche modo, vive in Calabria. E che la loro apparizione nel 1972 non sia stata casuale, come molti dicono in Semidei.
L’accoglienza di Semidei a Venezia è stata molto calorosa.
È stata come una festa e ne sono felicissimo. Non sai quanto fossi preoccupato fino a poche settimane fa. Abbiamo consegnato la versione definitiva all’ultima data possibile, il 13 agosto, è stata una corsa incredibile contro il tempo. Inoltre, Semidei, da un punto di vista formale, è una piccola sperimentazione: è un film sull’arte, ma è anche cinema del reale. Temevo che, unendo le due cose, il messaggio non sarebbe passato e, invece, dalle reazioni del pubblico, ho capito che il suo senso è arrivato, ha emozionato. Sono stato contento anche di aver potuto celebrare il lavoro di tutti intorno a Semidei, non solo quello mio e di Alessandra Cataleta, ma di tutti quanti, a partire dai due montatori Filippo Montemurro e Mauro Rossi, che hanno fatto un lavoro meraviglioso e difficilissimo. E poi anche i produttori di Palomar e Calabria Film Commission, perché hanno avuto molto coraggio, ma anche tanta fiducia, lasciandoci totalmente carta bianca.