Non capiterà molto spesso di leggere nella scheda tecnica di un film: “Fotografia: detenute in carcere”. Sono infatti proprio delle carcerate, in qualche modo, le co-autrici del film Malqueridas, premiato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 80: Gran Premio IWONDERFULL come miglior film e Premio Mario Serandrei per il miglior contributo tecnico. È stata la giovane regista cilena Tana Gilbert, all’esordio nel lungometraggio, a impastare le immagini riprese clandestinamente dalle detenute, facendone, più che un’unica storia o un collage, un racconto collettivo: un’unica sinfonia di voci di donna, voci di madri.
Hanno nomi che saranno pronunciati e scritti, volti che saranno spesso – ma non sempre – mostrati. Tuttavia, la loro sembra una voce unica, levata come quella ninna nanna nell’oscurità che apre il film: un gesto di dolcezza, un anelito di libertà. Dal buio emerge, dissolta in entrata, l’immagine di una madre col bambino. È così che nasce il documentario; nasce in cattività. A suo modo, però, diventerà un canto libero. Questo è, tra svolte tenere e drammatiche, Malqueridas: film prezioso, di testimonianza accorata e di resistenza dell’umano.
Il trailer di Malqueridas
Malqueridas è prodotto da Paola Castillo (Errante) e Dirk Manthey (Dirk Manthey Film).
La trama di Malqueridas
Sono donne. Sono madri. Sono detenute che stanno scontando lunghe pene in una prigione in Cile. I figli crescono lontano da loro, ma rimangono nei loro cuori. In prigione trovano l’affetto delle altre detenute che condividono la loro stessa esperienza. Il sostegno reciproco tra queste donne diventa una forma di resistenza ed emancipazione. Malqueridas ricostruisce le loro storie attraverso le immagini che loro stesse hanno girato con i cellulari vietati dentro la prigione, recuperando la memoria collettiva di una comunità dimenticata. (Sinossi ufficiale)
Un film in cattività
Film girati con smartphone non sono una novità. Né tecnicamente (SMS Sugar Man, Tangerine), né concettualmente (le immagini “rubate” di Seven Winters in Tehran di Steffi Niederzoll o di Revolution of our times di Kiwi Chow). Malqueridas non ambisce a distinguersi per l’inusualità del formato; lo vive, piuttosto, con concentrata espressività, per narrare nel modo più distillato possibile il vissuto drammatico delle carcerate cilene. La forza del documentario di Tana Gilbert è nell’esibire tutti i crismi del film in cattività. Il formato, inevitabilmente, è verticale. Le riprese sono parziali, le foto sono sgranate: più che immagini rubate, sono immagini evase.
Malqueridas, madre con figlio in foto sgranata
Nell’asfissia dei materiali – un bel casino, s’immagina, approvvigionarsi di riprese dal carcere – si ricorre a slideshow di foto, financo a porzioni statiche con fermo immagine e voce narrante. In 74 minuti, Malqueridas è un film senza ora d’aria. Ancor di più per questo, è miracoloso l’afflato che le donne riescono ad esprimere: non già di sopravvivenza, ma di vita pura.
Il suono che fa presa
Se in Malqueridas l’immagine è claustrofobia più o meno volontaria – cortili o vedute ripresi tra le sbarre, riprese semi-nascoste, sequenze disfatte nella penombra – il suono è ricco di pulsazioni. Non a caso preesiste alle immagini nei titoli di testa e sopravvive nei titoli di coda, continuando a manifestarsi testardamente anche nel sonno della coscienza cinematografica. All’inizio, per esempio, si sentono i tintinni di qualche giocattolo, coperte che si stropicciano, farfugli d’infanti, persino lo sciabordio delle acque di un bagnetto – presto evocato anche dalle foto in fermo immagine. Ma c’è un suono che fa più male, ed è quello delle chiavi della prigione che si richiudono durante le visite dei bambini:
Quando la guardia veniva a chiuderci il pomeriggio, il bimbo già riconosceva il suono delle chiavi. Sapeva perfettamente che ci stavano chiudendo dentro. E diceva: “No, mamma!”.
C’è dunque una specie di tensione continua in Malqueridas: di immagine che vuole fuoriuscire, di mondo chiuso che si estroflette. Il dolore e la frustrazione sono anche amore, slancio vitale. Emblematica la scena di una telefonata della carcerata al figlio Amaro: una tribolazione, per lo spettatore – la linea è irregolare, il volto del bimbo s’intrica in un blob di glitch nerastri. La comunicazione è disturbata. Ma si badi: la madre, nel rettangolino in alto a sinistra, sorride ancora, mentre il figlio piange. Finché c’è immagine c’è speranza.
Famiglia in un interno
Malqueridas, che letteralmente vuol dire qualcosa come “detestate”, non è comunque un film di solo logoramento, di prigionia ad oltranza. C’è giustappunto la spinta vitalistica delle donne; soffocata, ma infine emergente. La stessa voce narrante – a proposito del suono che sopravvive – è un indizio ostinato di presenza, più forte degli androni del carcere mezzi sfondati, in cui ci piove come lacrime amare di fango. Isolate da quel mondo che è cartolina tra il metallo delle sbarre, alienate dai figli e dalla famiglia, le carcerate trovano spesso come soluzione quella di farsi una famiglia all’interno: le malqueridas prendono a querer, ad amare, ad amarsi.
Malqueridas, atti d’amore in prigione
Così, la medesima detenuta racconta di una compagna di cui diventa amante, di un’altra più anziana di cui si sente figlia e di un’altra ancora più giovane a cui fa da madre.
In una conversazione con mia figlia, mi ha chiesto: “ehi mamma, chi è questa Andrea che ha postato su Facebook quanto ti ama?”. Le ho spiegato che anche Andrea era figlia mia.
Anziché lasciare, la vita raddoppia.
Tana libera tutte
Grazie a queste voci di dentro, Malqueridas fa dunque sentire con raddoppiata intensità la vita di fuori. L’attesa della visita o i fuochi d’artificio visti dalla finestrucola del carcere trasmettono lo stato d’animo. Tanto è forte questo desiderio estroflesso di normalità, questa proiezione all’esterno, che in alcune scene lo spazio della prigione è pressoché annullato.
Malqueridas, allegro bagno vestite delle carcerate in piscina gonfiabile
La foto di un bagno vestite evoca, più che la spensieratezza, la capacità di scialacquare le sofferenze. Durante una festa, una delle donne si scatena persino in un twerking. Joys as an act of resistance, recitava il titolo di un famoso album di musica punk. Le luci sono quelle di una discoteca. Chi se lo ricorda più che siamo in un carcere? I’m in Europe, dice una di loro.
Più che catturare, come fanno in genere i documentaristi, Tana Gilbert ha liberato. Tana libera tutte. Finché resistono, aggirando i controlli, quelle immagini cinematografiche, resistono anche le donne, resistono le madri. Che bel canto libero, Malqueridas.