Do Not Expect Too Much From the End of The World di Radu Jude alterna critica sociale e riflessioni sul cinema con la consueta libertà e gusto della provocazione.
Fuori concorso al Torino Film Festival il film era stato in concorso al 76esimo Locarno Film Festival vincendo il premio speciale della Giuria del concorso internazionale
La trama di Do Not Expect Too Much From the End of The World
Quando a circa due terzi di Do Not Expect Too Much From the End of The World Radu Jude decide di mostrarci le seicento croci delle vittime di incidenti stradali presenti lungo una delle strade percorse dall’automobile della protagonista lo spettatore viene preso in contropiede, rimanendo sorpreso che il regista romeno, dopo aver spinto la visione oltre ogni libertà, non perseveri nell’intenzione, realizzata solo in parte, di mostrarcele una per una sulla scia delle singole inquadrature che, per quattro minuti, interrompono la convulsa giornata di Angela, trentenne romena costretta a sbarcare il lunario dividendosi tra il lavoro di autista per conto di Uber e le interviste ai possibili protagonisti di uno spot dedicato agli infortuni sul lavoro commissionato da una fabbrica locale a una grossa Corporation straniera.
La recensione di Do Not Expect Too Much From the End of The World
Do Not Expect Too Much From the End of The World lo racconta con una cavalcata senza tregua nel tempo e nello spazio, tra stili e formati di ogni ordine e tipo, in cui le vicende di Angela si sovrappongono a quelle della sua omologa, protagonista di un film, Angela Merge Mai Departe, realizzato durante la dittatura di Ceaușescu, qui ripreso attraverso numerosi inserti che collegano il passato e il presente del paese per dimostrare come il secondo non sia nient’altro che la continuazione del primo soprattutto nell’oppressione dei cittadini meno fortunati. Un’attenzione, quella verso l’umanità dimenticata, che invece non manca al regista di Sesso sfortunato e follie porno, disposto almeno per un attimo a mettere da parte le sue provocazioni per dedicare un ricordo a chi non ce l’ha fatta, lasciando al silenzio delle immagini il compito di scriverne l’ideale epitaffio.
Se è vero che oggi più di allora sopravvivere alla corruzione morale e materiale dello Stato e del suo progetto economico è questione di fortuna – quella che ha Angela, destinata a uscire incolume da un piano di lavoro a dir poco disumano – Do Not Expect Too Much From the End of The World, con la sua visione anarchica dell’arte e della vita sembra voler dare una spallata uguale e contraria alle forze del male, ribellandosi da par suo a qualsiasi tentativo di irreggimentazione estetica e narrativa, anche a costo di apparire in certi passaggi brutto e sgangherato: come succede nel caso dell’insistito turpiloquio utilizzato sui social dallo pseudonimo della protagonista, i cui interventi oltremodo fuori le righe diventano la cassa di risonanza di un nonsense sotto il quale si nasconde (neanche tanto) la tragedia. Così come nella scelta di mostrare la realtà per quello che è, senza prendersi la briga di edulcorarne la durezza con espedienti di messinscena qui alleati del regista nel mostrarsi refrattari a eventuali abbellimenti. Questi ultimi archiviati senza nostalgia dall’uso di un bianco e nero slabbrato e materico come la vita della protagonista, e quand’anche colorati, negli inserti Found Footage del film del 1981, destinati a risultare monocordi come lo era l’esistenza ai tempi della dittatura.
Una discontinuità a tutti i livelli, quella del film, che Jude sembra voler azzerare nel (fluviale) piano sequenza conclusivo in cui la ritrovata compostezza dell’immagine, unita alla trasparenza del messaggio – reso ancora più chiaro dalla reiterazione del monologo che ce lo consegna – servono all’autore per dividere i buoni dai cattivi e fare luce in maniera chiara sulla cospirazione portata avanti anche da chi, come la manager pronipote di Goethe (interpretata da Nina Hoss), avrebbe gli strumenti culturali per comportarsi diversamente.
Assegnando alla linearità narrativa e alle nuove possibilità tecnologiche il compito di supportare i potenti a scapito degli ultimi, e dunque prendendo le distanze dalle produzioni mainstream, è come se Jude ci dicesse che l’unico modo per stare dalla parte degli umiliati e offesi è quello di fare un cinema come il suo, capace di scombinare le regole anche a costo di alienarsi le simpatie di chi è abituato a ragionare secondo schemi prestabiliti.
Senza nutrire speranze sugli esiti finali, dichiarati in maniera beffarda fin dal titolo in cui il nostro si fa gioco di chi, invocando la rivoluzione, si illude ancora oggi di cambiare il mondo senza riuscire a farlo – come successe in Romania dopo la caduta di Ceausescu – per la congenita rapacità degli uomini. Sarà anche per questo che alla maniera del cinema di Emir Kusturica quello di Rude sceglie di raccontarsi in chiave grottesca e surreale, la sola capace di mettere un po’ di distanza tra noi e l’approssimarsi della fine.