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Se l’indipendente si fa accalappiare. Steven Soderbergh: dagli Ocean’s al Che

Dopo averci stupito per la rapidità di movimento con la quale è sgusciato da una parte all’altra dell’Hollywood System facendosi amare e invidiare da tutti, Steven Soderbergh ritorna al film impegnato dopo le frivolezze del passato.

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soder

Dopo averci stupito per la rapidità di movimento con la quale è sgusciato da una parte all’altra dell’Hollywood System facendosi amare e invidiare da tutti, Steven Soderbergh ritorna al film impegnato dopo le frivolezze del passato.

Comparve sul finire degli anni ’80, per chi se lo ricorda, con una pellicola che guadagnò più di quanto tutti si aspettavano e si acciuffò pure la Palma d’Oro: era il Sesso, bugie e videotape di questo giovanotto della Georgia, che ha fatto parlare di sé molto di più nel momento in cui la sua duttilità produttiva ha incontrato la gallina dalle uova d’oro (George Clooney) in Out of sight, e poi un pezzo ben più pregiato, la travolgente Julia Roberts (con lui in Erin Brockovich – Forte come la verità). Qua e là tra azione e sguardo politico-civile, tra successi di botteghino e successi di critica, e la scintilla scocca.

Tuttavia la vera potenza di Soderbergh sta nel non aver mai perduto il contatto col panorama indipendente americano: qualcosa di diverso dalla penombra sdrucita delle sale di seconda visione, un classico fino a qualche decennio fa per gli esclusi dal main stream. L’indipendente con cui Soderbergh va a braccetto è il piglio sociale di cui sempre più spesso avvertiamo la mancanza: seppure si sia in fretta abituato ai corpulenti budget hollywoodiani, rimane in lui un sottofondo di tematiche concrete, talvolta scomode, e mecenatismo produttivo furbetto. Perciò: si gira prima tutta la serie di Ocean undicidodicitredici, poi produce il Clooney del graffiante Good night and good luck; sbanca gli Academy con Traffic e si permette finezze come A scanner Darkly; co-dirige con artistoni tipo Antonioni e Kar-Wai (Eros), poi ripiega sul vintage dai sapori noir (Intrigo a Berlino). Pare quasi che abbia trovato il dosaggio più equilibrato tra la busta paga delle Major, e prodotti che stimolano addirittura una riflessione europea-d’essai-impegnata.

Regista umano e attento ad ammiccare al pubblico, quindi, che destreggia i moti dell’animo e sa appassionare per le cause che i suoi protagonisti difendono; un attento selezionatore, nonché accorto direttore alla fotografia. Scelte strategiche e veri e propri investimenti artistici, coronati dalla sua firma puntuale, che rimangono appesi il più possibile all’idea di cinema indipendente e libero di parlare.

Con questi concreti presupposti nasce Che: L’argentino e Che: Guerriglia, dove ribadisce il connubio professionale già vincente con il caliente Benicio Del Toro. Il binomio di film è chiaramente uno scontro di petto contro lo storico e l’immaginario mitizzato fino all’esaltazione, e poco importa che l’ombra della potenza americana abbia impedito le riprese nella vera Cuba. In quei suoi duecentosessantatre minuti, il Che si racconta in tutta l’emozione dei suoi viaggi e delle sue battaglie, per restituire l’alito di quella energica speranza che fino all’ultimo rantolo aveva sostenuto.

La storia si allontana dalla politica schietta, via dai rimorsi intercorsi tra Guevara e Castro, via dalle posizioni americane di rifiuto, via dall’ostilità degli stessi partiti comunisti Boliviani: se la cava così Soderbergh, trascinatore di pubblici, affrescando un idolo umanizzato ed educato, senza contestare la sua sacrosanta immortalità. Se la cava così, con tutto il rispetto per la passione, ma senza parlare delle questioni scottanti e proponendo un film-fiume difficile da presentare: un grande mito sullo schermo, con la sua grande lezione di vita, ma non abbastanza grande da vincere la sfida di rendere diffusamente digeribili quattro ore di cinematografia moderna.

Ancora una volta Il Che rimarrà a quei pochi intimi che se la sentiranno di ascoltare: per tutti gli altri c’è l’icona della magliettina.

Rita Andreetti


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