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In Sala

ATM – Trappola mortale

“ATM” mette in scena la rivisitazione straniata e paranoica di spazi ristretti, citando precedenti illustri, come “Panic Room” di David Fincher, “Phone Booth” di Joel Schumacher e “Frozen” di Adam Green.

Pubblicato

il

Anno: 2011

Distribuzione:  M2 Pictures

Genere: Thriller 

Nazionalità: USA/Canada

Regia: David Brooks

Piantato nel bel mezzo del nulla, ai bordi di una highway immersa nell’oscurità, c’è un ATM, un Automatic Transfert Money. È una specie di bunker di cemento armato e vetro antiproiettile adibito a bancomat. In questo spazio claustrofobico e spersonalizzato il regista David Brooks incassa praticamente l’intera trama del film, salvo un breve preludio festoso che sbriga velocemente la presentazione dei protagonisti. Si tratta precisamente di tre giovani che, nel giro di poche sequenze, passano da una festa all’American Pie a un folle incubo metropolitano, ostaggi di un aguzzino che vuole farli a pezzi.

Facce da college, giovani, carine, cool, si deformano presto in maschere spaventose, scoprendo poco a poco che uno spazio urbano anonimo, funzionale, apparentemente innocuo, può assumere un’identità liquida, terrificante, a metà strada tra il rifugio assurdo e la trappola mortale. Strozzata com’è in una rigida unità di tempo, luogo e azione, avvitata in una location senza respiro, con movimenti di macchina ridotti all’osso, la trama procede per accumuli e strappi, fiotti di adrenalina alternati a sospensioni angoscianti. Questo folle moto pendolare, a un certo punto, sembra conoscere una variante. Come in una spietata orologeria kafkiana, infatti, a metà del film accade che non sia più il castigo a cercare la colpa, ma la colpa a interrogarsi sui possibili motivi del castigo. È una pausa meditativa che dura poco, però, perché il panico non dà modo alle psicologie di delinearsi, azzerandole brutalmente in un set di istinti primari. Il thriller torna allora alla sua nervatura essenziale, fatta di panico e lotta per la sopravvivenza, con esplosioni di terrore intensificate dallo spazio corazzato in cui sono compresse.

Un’altra svolta accennata e poi negata si delinea quando il gioco del gatto col topo pare evolvere in una partita a scacchi. A un certo punto, infatti, sembra che le vittime, invece di rassegnarsi a soccombere, riescano a tener testa al carnefice, fregandolo con i suoi stessi mezzi. È una riscossa senza storia però, schiacciata sul nascere, che precipita l’azione in abissi di disperazione supplementari, verso un’asfissia da incubo. Testimone impassibile di questa catastrofe è, in primo luogo, la macchina da presa, che fissa l’azione in inquadrature fredde, acide, desaturate. C’è poi la telecamera a circuito chiuso, allucinante film nel film, che riprende la carneficina in immagini spoglie, sgranate, tappate in una totale assenza di sonoro. Sembra una garanzia di oggettività, invece, incredibilmente, decide la tremenda condanna dell’unica vittima che scampa alla mattanza.

ATM mette in scena la rivisitazione straniata, paranoica di spazi ristretti, citando precedenti illustri, come Panic Room di David Fincher, Phone Booth di Joel Schumacher e Frozen di Adam Green che incastrano i protagonisti rispettivamente in una stanza d’acciaio, una cabina telefonica e una funivia. Per di più, ATM può contare sul contributo di uno specialista del settore, lo sceneggiatore Chris Sparling, che ha firmato anche la storia di Buried-Sepolto, la più spaventosa variante di questo genere claustrofobico. A differenza di questi precedenti, però, in ATM manca completamente una cornice di senso che riscatti la tragedia dalla sua assurdità. Il massacro, infatti, resta senza spiegazione ed è anche banalizzato da un epilogo che lo declassa a elemento di una serie, sterminio fotocopia di un altro e poi di un altro e un altro ancora. Alla fine si tira un po’ il fiato soltanto perché la catarsi negata non sembra scaturire da un’inquietante scelta autoriale, ma da un furbo calcolo produttivo, che consegna a un probabile sequel la spiegazione dell’incubo.

Mirko Benedetti

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