
Anno: 2011
Distribuzione: Vitagraph
Durata: 6o’
Genere: Documentario
Nazionalità: Italia
Regia: Gabriella Romano
Già autrice del bel libro “Il mio nome è Lucy. L’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale” (Donzelli, 2009), Gabriella Romano, la versatile scrittrice e regista torinese sempre attenta a miscelare storia ed attualità sociali, ha di recente firmato il documentario Essere Lucy – presentato al Queer Cinema & Future Arts Festival presso il Nuovo Cinema Aquila di Roma – ritratto di una transessuale piemontese sopravvissuto al campo di concentramento di Dachau, tra immagini di repertorio e testimonianze dirette. “Questo documentario – afferma la regista, presente alla proiezione insieme a Lucy, la protagonista oggi 86enne – è un monumento alla mia testardaggine, date le enormi difficoltà produttive che si incontrano di questi tempi per finanziare i documentari e gli altissimi costi delle immagini di repertorio. Mi sembrava importante raccontare questa storia, la vita difficile ed intensa di Lucy, nata negli anni Venti, dalla sua diserzione dall’esercito alla deportazione a Dachau, agli anni del Dopoguerra, fino all’operazione per cambiare sesso ed ai giorni nostri. Nonostante tutto, Lucy ha sempre mantenuto un approccio gaudente ed aperto alla vita”.
Il suo nome all’anagrafe è Luciano ma, da sempre, il giovane è consapevole delle sue propensioni e vive sulla sua pelle i pregiudizi e le ipocrisie di certa parte della società: chiamato alle armi, diserta e sfugge ad un primo campo di concentramento attraverso incredibili peripezie, finché, riacciuffato, verrà portato a Dachau. In alcune immagini molto toccanti del documentario, la regista accompagna Lucy al campo, in occasione di una celebrazione fatta in onore dei sopravvissuti. “Ricordo la fame che si soffriva a Dachau – afferma Lucy – che ottenebrava qualsiasi altro pensiero, i lavori forzati ed il giorno che i nazisti ci hanno sparato addosso perché stavano arrivando gli americani. Tornare lì, dopo tutti questi anni, mi ha provocato un’emozione fortissima”.
Dopo la guerra Luciano, che a poco a poco diventerà Lucy, si rifugia a Bologna dalla famiglia, ma il padre e soprattutto i fratelli non vogliono accoglierlo, temendo che il loro nome venga accostato alla vita omosessuale. Inventandosi mille lavori diversi, dal cabarettista di varietà, al tappezziere, all’arredatore, finanche all’artista di circo, Lucy, tra gli anni Cinquanta e Settanta, mantiene vivo il contatto con il mondo omosessuale e transessuale europeo dei festini e dei locali notturni, per lungo tempo clandestino e poi sempre più ‘libero’.
“Di giorno lavoravo e di notte frequentavo i locali trans – continua Lucy – andavo spesso anche a Parigi, dove c’erano delle feste stupende, finché negli anni Ottanta ho deciso di operarmi a Londra, perché a Casablanca non mi sembrava tanto sicuro. Quando ero Torino il padrone di casa mi ha cacciato e sono andata a vivere a Bologna, dove ho avuto amanti, amori e ‘figli’ adottivi”.
Dunque, senza orpelli, il ritratto di una vita singola diventa simbolo di tante vite vissute nel corso di quasi un secolo, tra battaglie individuali e lotte comuni: “Prima della guerra l’omosessualità era vissuta in modo più individuale – conclude la regista – e si faceva fatica a pensare in termini di coscienza collettiva, come poi è avvenuto grazie ai movimenti sorti a partire dagli anni Sessanta e Settanta”.
Elisabetta Colla