Festival di Roma 2011: “Une vie meilleure” di Cédric Kahn (in Concorso)
“Une vie meilleure” è un film che merita d’esser visto per come coniuga iperrealismo e ricognizione emotiva, crudeltà quotidiana e affettività, nichilismo e speranza
Cédric Kahn mette in scena una storia in cui gli elementi socio-politici e umani s’intrecciano, costruendo, in tal modo, un registro narrativo che si dipana tra la ricognizione di una realtà in cui non è dato poter trascendere la propria condizione di classe e la rappresentazione di una vicenda emotiva capace di superare i limiti di un orizzonte che si presenta, fin dall’inizio, chiuso.
Yann (Guillaume Canet), cuoco trentacinquenne, incontra Nadia (Leïla Bekhti), una cameriera ventottenne, madre di un bambino, e, insieme, decidono di investire tutte le loro energie nell’acquisto di un ristorante.
Il tentativo di dare una svolta economica alle loro vite appare, quasi fin da subito, irrealizzabile, tant’è che, dopo essersi indebitato fino al collo, Yann è costretto a vendere il locale, mentre Nadia è già partita alla volta di Montreal (Canada), per dedicarsi ad un impiego più redditizio.
Da una prospettiva politica, il film denuncia l’errore di fondo delle azioni intraprese dai due giovani, i quali, anelando a uno stile di vita piccolo borghese, s’imbarcano in un’operazione ardita e miope che innesca un movimento di mutazione antropologica cui non sono pronti. Più corretto sarebbe stato maturare una maggiore coscienza di classe, e su di essa costruire le fondamenta della loro relazione.
Il lato emotivo, però, costituisce la contropartita che ricompensa il fallimento sociale. Il figlio di Nadia, con cui Yann intrattiene un rapporto fortemente paterno, costituisce l’elemento eccedente la struttura in cui sono ‘catturati’ i due ragazzi, la speranza che fende le maglie ferrose di un apparato che riterritorializza voracemente qualsiasi tentativo di smarcarsi dalla posizione sociale assegnata. È la possibilità di un futuro diverso, una promessa gioiosa che riesce a restituire il sorriso anche di fronte alla più tragica delle situazioni.
Apprezzabile è il tentativo intrapreso dal regista di partire da una piattaforma critica marxista per poi inoltrarsi in una riflessione più ampia, anche se lo svolgimento appare un po’ confuso, non sufficientemente elaborato, con una dilatazione dei tempi che non aggiunge nulla alla tesi di fondo del film.
Anche se non del tutto riuscito, un po’ per la complessità dei temi trattati, un po’ per il mancato sviluppo delle suggestioni proposte, Une vie meilleure merita comunque d’esser visto, se non altro per come coniuga iperrealismo e ricognizione emotiva, crudeltà quotidiana e affettività, nichilismo e speranza.
Luca Biscontini
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