Don’t Look up di Adam McKay mette in scena la società dello spettacolo in cui la spettacolarizzazione della realtà diventa il modo con cui il potere si prende gioco delle persone. Prima al cinema e ora su Netflix Don’t Look up non manca certo di coerenza, a partire dalle scelte formali operate sui codici di genere.
Don’t Look Up: nella società dello spettacolo
Verrebbe quasi da riconsiderare un classico come La società dello spettacolo – scritto dal filosofo francese Guy Deboard nel lontano 1967 -, per commentare Don’t Look up, il nuovo film di Adam McKay, appena uscito su Netflix dopo un rapido passaggio nelle sale. Nel criticare il capitalismo, reo di assecondare i propri interessi a scapito delle classi più povere, Deboard indicava nel processo di spettacolarizzazione della realtà l’inganno messo in atto dai potenti per riuscire a farla franca e impossessarsi del malloppo.
Empire Burlesque
Con i dovuti distinguo, il principio appena enunciato è quello che il regista americano mette in scena allorquando i protagonisti del film, un astronomo (Leonardo Di Caprio) e la sua assistente (Jennifer Lawrence), si ritrovano alla Casa Bianca e poi in televisione con il proposito di convincere il popolo americano dell’esistenza di un gigantesco meteorite pronto ad abbattersi sulla terra. Invece di prenderla sul serio adoperandosi a evitarne l’impatto, l’arrivo della cometa diventa immediatamente un pretesto da sfruttare, con il superclan politico, tecnologico e massmediatico lesto a trasformare la disgrazia nell’affare del secolo.
Massimale/Minimale
Già autore di cine pamphlet quali La grande scommessa e Vice – L’uomo nell’ombra, la vena caustica e corrosiva di McKay continua a prendere di mira i poteri forti, facendo degli Stati Uniti e dei suoi tanti Mogul il teatro di una tragicommedia che ne evidenzia magagne e ipocrisie. Per farlo il regista americano procede lavorando su opposti destinati a deflagrare nell’impossibilità di conciliare massimale e minimale, piccolo e grande, lineare e complesso. In questo senso sono emblematiche la prima e l’ultima scena, tanto lontane nei contenuti quanto vicine per spirito e composizione, laddove l’accostamento tra la fetta di pane spalmata di martellata che fa da preludio alla scoperta del meteorite trova corrispondenza nella sequenza finale attraverso la cena casalinga che precede l’arrivo della cometa.
Don’t Look Up: deflagrazione dei generi
Un principio fondante, quello appena esposto, che McKay ripropone non solo nella costruzione narrativa, ma anche nella definizione dei personaggi, tutti, nessuno escluso, portatore di contraddizioni destinate a venire a galla con conseguenze al tempo stesso drammatiche e demenziali.
Così lo è la dicotomia tra l’importanza del ruolo sociale e istituzionale dei protagonisti e la stupidità a tratti folle, a tratti grottesca, della loro attitudine.
Attacco a Hollywood
Nella consapevolezza che anche Hollywood non è esente da colpe, ma che anzi si è prestata e ancora si presta a fare da megafono alla politica dei giusti, McKay si spinge oltre, divertendosi a ingaggiare alcune delle star più luminose e popolari del firmamento cinematografico americano e mondiale, per farli interpreti di un immaginario di segno opposto a quello per cui sono state consacrate. Così capita a, Meryl Streep e Cate Blanchett paladine di eleganza e di intelligenza, chiamate a impersonare donne grette e superficiali, così succede a Di Caprio in un ruolo che va contro quello di antieroe bello e impossibile che ne hanno consacrato la maturità artistica. Per non dire di Mark Rylance, che nei panni dell’imprenditore tecnologico Peter Isherwell sembra fare il verso ai nuovi re della comunicazione tecnologica, producendosi in una performance lontana dalla riflessiva sobrietà della sua filmografia.
Un finale controcorrente per Don’t Look Up
Efficace quando si tratta di incalzare fatti e personaggi, portandone al limite tic, manie e modi di fare, Don’t Look up perde di efficacia quando decide di cambiare passo, trasformando la corrosiva incredulità in una constatazione malinconica finanche struggente. Così facendo la narrazione di McKay altrove compatta ed equilibrata qui appare sfilacciata, allungando i tempi del suo svolgimento oltremisura. A onor del vero bisogna dire che se esiste una coerenza nel film è proprio quella di rinunciare alla spettacolarità dell’assurdo, adottando una misura che, almeno al termine delle oltre due ore di durata, prende le distanze dai codici hollywoodiani, con un finale sotto tono e privo del consueto happy ending. A questi livelli non è una cosa scontata.
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