Gli ultimi anni della vita Marguerite Duras li passò chiusa in casa. L’unico a rimanerle vicino, il compagno Yann Andréa, raccolse questa sua potente verità: “È difficile morire, a un certo momento t’accorgi che le cose della vita finiscono. È tutto.”
E tra le cose della vita metteremo anche, oltre alla morte, senza dubbio l’amore, nel film di Jacquot, esplorato nella sua totale complessità, anche psicologica, dal personaggio principale: Suzanna.
La Duras stessa, che sfuggiva dall’endroit bourgeois che l’aveva generata per rifugiarsi invece nell’autenticità di poesia e scrittura, conobbe bene le cose della vita dopo aver perso sia un figlio che un fratello e avendo avuto più mariti e diversi amanti.
Il suo personaggio riproposto da Jacquot, pare aver bevuto, come farebbe un foglio di carta assorbente con l’inchiostro, tutta la realtà vissuta dalla scrittrice; menzogna e verità, denaro, dipendenza ed autonomia in una relazione, cose intrise anche del contesto sociale in cui furono generate: gli anni ’60.
Fine Anni ’60: contesto sociale e contemporaneità di “Gli amori di Suzanna Andler”
Tematiche attuali, derivate da un’opera però concepita nel 1968 dove si esplora, come in un gorgo nascosto e subdolo che fa affogare, il timido e maldestro tentativo di una donna verso l’autonomia sentimentale e sessuale dal marito traditore, da cui però non sa, non può o non vuole staccarsi del tutto.
Anni rivoluzionari quelli, in cui la femminilità iniziava ad opporsi ai soprusi, per prendersi apertamente delle rivincite. Sorta di me too ante-literram!
I dialoghi nel film “Gli amori di Suzanna Andler”
“Non sapevo che potesse essere così terrificante il non amarsi” – dice Suzanna – imprigionata tra l’agire, lo stare ferma, l’amare, la paura e le pulsioni del vecchio e nuovo. “Perché morire, Susanna perché”? chiede l’amante Niels Schneider. “Per non mentire più, credo” risponde l’intensa Charlotte.
I dialoghi di questa snella pellicola sono una cosa a sé. Potenti, efficaci, laconici, utili, scolpiscono l’anima, come farebbe un artista su un pezzo di marmo e sono anche la forza della pellicola che cresce in intensità e tensione man mano che procede. In scena nulla accade se non il tutto del nulla e dell’amore con le sue insicurezze, follie, bugie, slanci e ritrosie. I particolare quelli di una donna ferita e sola.
Siamo a Saint-Tropez. Inverno. Interni di una villa affacciata sul mediterraneo calmo. Malinconica, spoglia, disabitata, la casa è un terzo protagonista assieme a moglie e amante, il giovane e perfetto Niels Schneider è invaghito di Suzanna Andler (Charlotte Gainsbourg). Donna inquieta e sul bordo dell’emancipazione che non riesce a cogliere del tutto, essa rimane dilaniata tra l’indifferenza del marito, tutto il suo denaro e le fatue o reali profferte di questo bel giovane, a cui non crede del tutto e a cui mente.
“Suzanna è complessa” – dice Jean Andeler della moglie – “che era inconoscibile se non attraverso il desiderio”. Mente al giovane, mente al marito, ma soprattutto mente a se stessa trincerandosi dietro a una stabilità familiare, quella della potenza economica o dell’amore per i figli che diviene, come per molte donne inconsapevoli, una prigione dorata. Charlotte è una donna nascosta. Dalla classe sociale. Dagli indottrinamenti ricevuti, dalle convenzioni. Dalla paura. Tenta di rendersi libera, ma non ci riesce del tutto. Piena di contraddizioni, infelice, dedita all’alcool, è prigioniera di se stessa, della mancanza di fiducia, del dolore di anni di tradimenti.
Francia, anni ’60. La quarantenne Suzanna, accompagnata dal suo amante, fa visita una casa in riva al mare da acquistare per la famiglia. Quello stesso giorno, in quella stessa abitazione, un evento spezzerà per sempre la sua routine. Tratto dall’omonima pièce di Marguerite Duras, il ritratto di una donna intrappolata in un matrimonio infelice, chiamata a scegliere tra il destino di madre e moglie borghese e il sogno di libertà incarnato dal giovane amante…
Due parole sul regista Benoît Jacquot (Parigi, Francia, 1947)
Definito dal critico Jean-Michel Frodon, un cineasta sfuggente, «che crede fortemente nella realtà, nella letteratura e nell’inconscio», nel corso della sua lunga e prolifica carriera, Jacquot (Parigi, Francia, 1947) ha realizzato diversi film d’argomento letterario (Dostoevskij, James, Borges, Salinger, Goethe, Delillo), storico (la rivoluzione francese, l’opera ottocentesca) e psicanalitico, legandosi a interpreti femminili come Isabelle Huppert, Virginie Ledoyen, Isild Le Besco, Charlotte Gainsbourg.
Ha cominciato la sua carriera nel cinema fin da giovanissimo, lavorando dalla metà degli anni ’60 come assistente di Bernard Borderie, Marguerite Duras, Marcel Carné e Roger Vadim. Interessato alla psicanalisi, nel 1974 ha filmato alcuni seminari del grande psicanalista Jacques Lacan (Jacques Lacan: psychanalyse – 1ère e 2e partie) e l’anno successivo ha esordito alla regia con L’assassin musicien. Con Le septiem ciel (1997), Niente scandalo (1999), L’intouchable (2006) e Tre cuori (2014) ha partecipato in concorso alla Mostra di Venezia, mentre nella competizione di Berlino ha portato Addio mia regina (2012), Journal d’une femme de chambre (2015) e Eva (2018). Addio mia regina ha inoltre ottenuto tre César per le scenografie, i costumi e la fotografia.
Il film è stato presentato al Torino Film Festival (qui il sito)