Fortezza di Ludovica Andò ed Emiliano Aiello non è soltanto un film bello, rigoroso, ma è anche uno dei titoli con cui si riaffaccia nelle sale, dopo il lungo stop dovuto alle chiusure, una realtà come Distribuzione Indipendente. Ovvero la società che grazie all’impegno di Giovanni Costantino e dei suoi collaboratori più ha fatto, negli anni passati, per offrire al pubblico una proposta differente, maggiormente audace. Perciò bentornati.
L’impronta di Emiliano Aiello
Di questo nuovo, piccolo listino sdoganato agli inizi della stagione estiva, Fortezza era già sulla carta l’opera che ci incuriosiva di più. Il motivo è presto detto: della coppia di registi che ha realizzato il film avevamo avuto modo di conoscere precedentemente Emiliano Aiello, per via di un documentario, Il sogno di Omero, permeato di sensibilità e al contempo coraggioso sul piano della ricerca espressiva. Vi si raccontava da una prospettiva sostanzialmente inedita la condizione della cecità. Ebbene, in questo nuovo lavoro abbiamo ritrovato quell’attenzione ai dettagli, alla messa a fuoco, al valore sottilmente metaforico di certe inquadrature, che sembrerebbe contraddistinguere la sua filmografia.
Valore aggiunto: la co-regia di Ludovica Andò, che dal canto suo ha portato l’esperienza del teatro nelle carceri, il dialogo fitto e costante con quella particolare umanità che sperimenta ogni giorno uno status di reclusione forzata. Fortezza, prodotto dalla Compagnia Addentro/Associazione Sangue Giusto in collaborazione con CPA-Uniroma3, è stato difatti girato coi detenuti attori della Compagnia AdDentro della Casa di Reclusione “G.Passerini” di Civitavecchia. Volti segnati da una peculiare intensità. E quanto mai accorta si è rivelata la scelta di far interpretare loro un testo come Il deserto dei Tartari, fonte in questo caso di prevedibili e comunque toccanti risonanze emotive.
Un’operazione perfettamente calibrata, nel segno di Buzzati
Nonostante la mediazione offerta dal celebre romanzo di Dino Buzzati, non è tanto al raffinato adattamento di Valerio Zurlini che corre il pensiero, quanto piuttosto a Cesare deve morire. Per quanto il capolavoro dei fratelli Taviani sia molto più articolato e geniale nei continui, persistenti scambi dialettici tra libertà e prigionia, tra rappresentazione teatrale e vita nelle carceri, la poetica di Fortezza è parimenti onesta nel creare simili “interferenze”, facendo parlare attraverso le immagini la location stessa. Crepe sui muri, formiche che colonizzano simili spazi, sbarre alle finestre e muri invalicabili diventano così altrettanti comprimari, che con la loro silente presenza dialogano con quei personaggi, umbratili, che la vita ha condotto in tale ambiente e che grazie all’arte sono diventati protagonisti di un racconto così archetipico, nei suoi risvolti kafkiani e nelle profonde implicazioni esistenziali.