In mani sicure (Pupille) di Jeanne Herry, distribuito da Lucky Red, arriva su Raiplay. È la storia di una madre e di un bambino ignari l’una dell’altro. Il film racconta i meccanismi del sistema di adozione. Ciascun personaggio è votato alla difesa dell’innocenza infantile, mentre i genitori diventano comparse in cerca di un ruolo.
«Tu pel fanciullo eri l’infallibile, / eri colei che non conosce errore. / L’umile tua parola nel suo cuore / si scolpiva così ch’ebbe indicibile / angoscia quando, per la prima volta, / pur come ogni altra, la tua mente folta / d’errori, avvolta nel dubbio scoperse».
Umberto Saba, A mamma
La trama
Brest, Francia. Alice Langlois (Élodie Bouchez) è una donna sola di quarantuno anni, fa l’audiodescrittrice nei teatri per ciechi, è in lista per ottenere un’adozione; Clara (Leïla Muse) è una neomamma ventunenne che non vuole tenere il piccolo. Tra le due protagoniste si attiva una rete di operatori professionali e appassionati.
L’assistente sociale Mathilde (Clotilde Mollet) incontra Clara per conoscere le sue intenzioni e affiancarla nella compilazione del «verbale di abbandono»: le illustra la procedura, il tempo a disposizione, l’eventualità di un ripensamento, la possibilità di consegnare al neonato una busta chiusa che gli permetta di rintracciare in futuro la madre, l’importanza di parlargli e dire addio. La ragazza ha tre giorni di tempo per decidere ma sceglie subito l’affido, benché potrà esercitare il diritto a cambiare idea entro i due mesi successivi. Intanto il neonato, Théo, diventa «pupillo dello Stato».
Karine (Sandrine Kiberlaine) lavora al centro per le adozioni e riceve l’incarico d’individuare un operatore familiare per «l’affido temporaneo» di Théo. La scelta ricade su Jean (Gilles Lellouche): questi, per quanto disilluso dalla sua professione, accudirà il neonato durante la «transizione», cioè fin quando nuovi genitori non prenderanno il bambino tra le braccia. Nel frattempo il consiglio di adozione ha due mesi di tempo per individuare una famiglia adatta. In casa di Jean Théo si dimostra mansueto e non piange, dorme, dorme troppo. Gli operatori per l’infanzia temono l’insorgere di disturbi relazionali e indagano.
L’analisi
«Un’adozione è un incontro di tre storie»: quella del genitore, quella del figlio e infine quella del loro legame. Da un lato c’è il desiderio di amore di Alice; dall’altro l’amore inteso come responsabilità, attitudine, comprensione: è il punto di vista di Karine, Jean e le altre figure professionali. Con chiarezza e senza didascalismi, il film ricostruisce il funzionamento del sistema per gli affidi. Nel corso delle interviste ai genitori candidati, l’impulso genitoriale viene posto dinnanzi alla ragione, all’analisi; i sentimenti sotto esame. I percorsi di Alice e Théo sono ricostruiti per via di due schemi: il primo è articolato, montato attraverso flashback e frammenti di vita personale; il secondo è lineare e poco esplorato (non si apprende quasi nulla della storia della madre biologica né del concepimento del bambino).
Théo (Maël Le Bihan) è il perno narrativo del lungometraggio. Un protagonista quasi privo di movimento, muto. Ogni evento, ogni battuta, ogni decisione riguardano la sua esistenza. All’intera vicenda corrisponde la somma degli sforzi compiuti dai protagonisti per assicurare al bambino un’infanzia serena. In attesa di una famiglia per Théo, Karine Jean e gli altri personaggi parlano al pargolo come se si rivolgessero a un individuo maturo: spiegano che la madre naturale ha voluto la sua felicità e per questo lo ha dato in adozione; lo rassicurano; cercano le sue reazioni; si sincerano che il bambino li veda, li ascolti e senta il loro odore.
Protagonisti sono uomini e donne per lo più soli che non concedono spazio alle proprie amarezze. Il film è ricoperto dei segni che gli adulti lasciano dietro di sé: l’esuberanza della moglie di Jean, gli sguardi di Karine verso di lui, le premure dell’infermiera nei riguardi di Théo, la sensibilità e le paure di Alice. Gesti e comportamenti che gettano tracce delicate, che gli stessi adulti non vedono o ignorano; una sequenza dopo l’altra, viene rammentato che al contrario un bambino sente, assorbe tutto: «non capisce le parole, ma percepisce l’intenzione, il sentimento».
Allora diventa cruciale assicurarsi che Clara si sia congedata dal proprio figlio, che lo abbia «salutato» con convinzione, che al contrario il piccolo non sia rimasto vittima della «ambivalenza» della madre. Nel Segreto del figlio Massimo Recalcati ha scritto che un bambino, percependo di non essere voluto, rischia di condurre un’esistenza errante, alla perenne ricerca di qualcosa. Nel film ogni sfumatura è oggetto d’indagine, non ci sono zone in penombra; la narrazione è chiara e fluida, perché con essa si costruisce il destino di Théo.
L’epilogo
Non c’è una patente per essere genitori, ma al contempo la genitorialità non è un’attitudine innata. Pupille mette in scena il travaglio per diventare madre. Non quello fisico, biologico ma quello morale. Non un parto ma un «innesto». I sei anni durante i quali Alice lavora su di sé, partecipa ai colloqui e affronta la trafila richiesta conducono alla scena finale, a un autentico concepimento (con- capĕre: prendere con sé, accogliere): l’epilogo di un amore atteso e infine conquistato.