Sulla scia del cinema di Scorsese e Coppola – unici nel loro genere –, anche nei libri pare sempre più difficile rinunciare alla tentazione di attingere al ricco serbatoio dei cliché per raccontare gli italiani d’America. Ci sono ancora scrittori, però, in grado di farlo. È il caso di Salvatore Scibona, trentacinquenne americano di origini siciliane, e del suo La Fine (tradotto e pubblicato in Italia da 66thand2nd), originalissimo romanzo d’esordio che è valso all’autore l’inserimento da parte del “New Yorker” nella lista dei “20 under 40”, i venti più importanti autori di lingua inglese sotto i quarant’anni.
Cleveland, 15 Agosto 1953. A Elephant Park, il quartiere italiano della città, si festeggia il giorno dell’Assunta. Le strade di quella Little Italy in miniatura vengono invase da una marea insolita di gente, sudata ed eccitata. Insolita per una città tutta cenere e fango che «faceva dimenticare la bellezza», «mastodontico mucchio di spazzatura – perfino il lago era marrone –» in cui «nessuno veniva a divertirsi. Era un posto per persone che avevano smesso di essere bambini». In un Ferragosto frenetico fluiscono le torbide vicende di un manipolo di gente comune, rese scintillanti da una lingua capace di aderire alle cose – di catturarne suoni e odori e restituirli in modo acceso e vivo –, ma anche attraversata da squarci di visionaria, dolorosa poesia.
Tre generazioni di migranti che, con continui flash-back, riavvolgono il nastro della memoria in un arco temporale di mezzo secolo, attraversando tutti i primi cinque decenni del Novecento: dal panettiere Rocco che rifiuta di accettare la morte del figlio nella guerra di Corea, al grasso Eddie, pensionato con manie di persecuzione capace di passare giornate intere a smoccolare contro le moolinyans(“le melanzane”, i neri). Da Ciccio, ragazzo rude ma di buon cuore che subirà l’abbandono della madre prima e la tragica morte del padre poi, alla vedova Marini, vecchia megera coinvolta in strani armeggi e attorno alla quale ruotano tutti i personaggi: «Portava una borsa nera. Il vestito, ovviamente, era nero; tutti i suoi vestiti erano neri. I sandali aperti che prese dall’armadio – era indifferente al freddo ora, voleva apparire sconsiderata e regale allo stesso tempo, la regina dell’Inferno – erano neri. Non metteva piede fuori di casa vestita di un colore diverso dal 1915».
Ogni personaggio ha, accanto a una spiccata fisicità – fanno tutti lavori manuali duri e pesanti, colti nel loro impasto quotidiano di sudore e fatica – fortissime tensioni spirituali. Ognuno, a suo modo, è intrappolato in un presente statico, granitico, con alle spalle un passato di solitudine e perdite dolorose, un passato da emigranti, da existential homeless, e davanti un futuro incerto che fa tremare e induce alla rassegnazione e all’immobilismo. L’unico modo per non essere schiacciati sembrerebbe, per tutti, un verbo, un gesto estremo: fuggire, scappare a gambe levate senza voltarsi indietro, «per disfarsi del vecchio sé e fare finalmente quello per cui si è stati creati».
Ma è forse una legge matematica quella di dover tornare, prima o poi, sui propri passi. Una di quelle sottese al funzionamento dell’Universo, che si ricercano affannosamente come il Graal senza accorgerci che modellano già, volenti o nolenti, ogni attimo delle nostre vite:
«…possiamo percepire noi stessi come soggetti che vagano senza meta nello spazio, quando invece eventi remoti ci hanno lanciato per lunghe orbite ellittiche come quelle delle comete, lontano dalle nostre origini, e alla fine il nostro percorso si compirà e torneremo alle persone le cui vite ci hanno preceduto e hanno dato origine alle nostre…»
È racchiuso tutto qui questo romanzo corale e polifonico, a suo modo epico per il suo essere per lunghi tratti antiepopea spietata e crudele: in un continuo andirivieni fra ruotine e fuga, immobilità e cambiamento, tra un inizio e una fine che non è mai tale perché apre sempre a un nuovo inizio, con già dentro i segni premonitori di un’altra fine ancora. L’ennesima, non certo l’ultima.
Luigi Di Chiara
Flanerì