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Fabrizio Rongione racconta i Fratelli Dardenne e l’emozione che nasce sempre dal disagio

Una testimonianza a cuore aperto che è anche la grande lezione di cinema di un attore in “corso d’opera”.

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Attore feticcio dei fratelli Dardenne Fabrizio Rongione racconta il suo percorso di uomo e d’artista attraverso l’incontro  con i registi di Rosetta. Una testimonianza a cuore aperto che è anche la grande lezione di cinema di un attore in “corso d’opera”.

Mi sembra che i tuoi personaggi siano spesso calati nei fatti della Storia, a cominciare da quelli interpretati per i fratelli Dardenne. Penso anche ai tuoi film italiani e mi vengono in mente La prima linea di Stefano De Maria, Diaz di Daniele Vicari e soprattutto Il primo Re. Quest’ultimo racconta addirittura la nascita dell’antica Roma. Volevo capire quanto conta questa storicizzazione nella costruzione dei ruoli e quanto investi, invece, negli aspetti legati alla personalità e alle emozioni.  

Devo dire che è un’ottima domanda, perché è una considerazione a cui  non avevo mai pensato. Per abitudine, ragiono solo sul carattere dei personaggi; però forse, anche quando fai l’attore, come essere umano c’è sempre qualcosa che ti sfugge, mentre le persone si accorgono di quello che non vedi. Tra l’altro, prima di iniziare a recitare, la Storia, come materia, l’ho anche studiata all’università. Ne sono stato da sempre appassionato e peraltro a ventisei anni mi è anche capitato  di essere Napoleone per sei mesi, tutte le sere, in un palasport di Parigi, davanti a quattromila persone. Per dire che mi sono spesso cimentato con rappresentazioni di tipo storico. Dunque ci può essere qualcosa che mi sfugge.

Ciò che dici sembrerebbe confermare quello che potrebbe essere un filo rosso della tua carriera. Una tendenza inconscia,  ma reale, verso un certo tipo di cinema.

Diciamo che io mi sono sempre appassionato alla storia, ma anche alle storie. Quando ho conosciuto i fratelli Dardenne, pensavo sarei diventato un comico; poi ho incontrato loro e la mia carriera ha preso un’altra strada. Ho continuato a scrivere spettacoli comici per il teatro e ora, a quarantasette anni, ho sceneggiato  la mia prima commedia per il cinema. Quando scrivi una storia per quel genere di film, devi essere molto concreto per far ridere le persone. E questa è una  dote che mi riconosco. Dopo Rosetta, ho avuto una brutta depressione e, tra le cose che ho dovuto fare per rimettermi in sesto. c’è stata quella di non sognare troppo,  ma di rimanere sempre con i piedi per terra.

In qualche modo hai anticipato la mia prossima domanda, perché mi ero appuntato di chiederti come si reagisce a un successo inaspettato e clamoroso come quello che hai avuto per Rosetta. Al tuo esordio ti sei ritrovato festeggiato e vincitore in uno dei templi del cinema. Un’esperienza  bella, ma per certi versi anche destabilizzante. Cosa ricordi di questi momenti?

È stato proprio un fulmine a ciel sereno, nel senso che quando abbiamo fatto Rosetta, all’epoca, nessuno conosceva i Dardenne. Avevano fatto La promessa, però era stato più un successo di stima che di pubblico, tanto che, arrivando a Cannes, mi ricordo che eravamo l’ultimo film in competizione e i giornalisti erano per lo più partiti. In generale, erano tutti convinti che avrebbe vinto Pedro Almodovar con Tutto su mia madre. Siamo arrivati il sabato mattina, abbiamo pranzato, poi c’è stata la proiezione con la sala piena. Ci hanno poi detto  di rimanere anche l’indomani,  perché avremmo avuto un premio:  dopo la vittoria per la miglior interpretazione femminile,  abbiamo pensato che sarebbe finita lì.  Per cui,  vederci assegnata anche la Palma d’oro per il miglior film  è stato uno choc, perché nessuno se l’aspettava: da lì è successo il finimondo perché l’indomani, tornati in Belgio, la gente ci ha accolto  in aeroporto come se la nazionale di calcio avesse vinto il mondiale. Sono cose che avevo rimosse dalla mente e solo qualche  anno fa sono tornate a galla.

A che punto della tua vita è arrivato il film dei Dardenne e come andò il provino?

Io volevo fare il comico; quindi avevo smesso di studiare all’università e cominciato a scrivere. Avevo già fatto il mio primo spettacolo di cabaret; ma, volendo impegnarmi in qualcosa di serio, mi ero iscritto all’accademia classica, che equivaleva più o meno al vostro  centro sperimentale, con il teatro al posto del cinema come oggetto di studio.

Nel secondo anno, di giorno andavo lì a studiare i classici, la sera facevo cabaret in piccoli teatri di Bruxelles. Il provino con i Dardenne venne fuori in questo periodo,  grazie al nostro professore che conosceva Luc Dardenne. Ci disse che c’erano questi registi belgi che cercavano un coprotagonista per il loro film e che, se ci interessava, potevamo andare a fare il provino. Io mi sono  presentato senza capire bene cosa avrei dovuto fare. Al primo ne è seguito un secondo, dopodiché mi hanno preso.

È un provino che ha completamente cambiato, non solo la tua vita, ma anche la tua impostazione d’attore, perché sei passato dal comico al drammatico. Come spesso capita, i grandi autori sanno vedere ciò che gli altri nemmeno concepiscono, ma questo nulla toglie all’eccezionalità di quel primo incontro.

Penso di avere una carriera un po’ strana, nel senso che sono italiano perché  figlio di emigrati, ma comunque sono nato in Belgio. È importante dire che i Dardenne sono cresciuti in una città mineraria vicino a Liegi; dunque hanno avuto modo di conoscere tanti italiani. Di questi argomenti non abbiamo mai parlato, però penso che il fatto che io sia italiano sicuramente è una cosa che mi ha aiutato, perché loro amano tantissimo il vostroPaese; ci vanno pure in vacanza.

Con gli anni, ho capito di  essere più un attore da tragicommedia, nel senso che, scrivendo e interpretando questo tipo di spettacoli, sono diventato consapevole di avere una forte vena comica, anche se poi finisco sempre per raccontare storie più drammatiche. A Cannes, durante la proiezione di Rosetta, quando sono arrivate le mie scene, il pubblico si è messo a ridere. Lì per lì sono rimasto malissimo, perché non avevo visto il film e quindi ho pensato di aver sbagliato tutto, di aver recitato male, perché la gente stava ridendo all’interno di un testo  drammatico. Mi vergognavo tantissimo, volevo tornare in albergo; ma poi ho capito che I Dardenne l’avevano fatto apposta. Si erano resi conto  di  questo aspetto di me – un po’ comico, un po’ drammatico – e proprio per questo mi avevano voluto.  

Guardando i film dei fratelli Dardenne, l’impressione è che tutto accada in maniera naturale. Dunque, uno immagina che sul set voi abbiate molta libertà  di movimento. In particolare, rivedendo i film  di cui sei protagonista, sembra che tu sia davvero quelle persone: le emozioni che trasmetti sembrano il risultato di un vissuto personale e non l’eredità emotiva del personaggio. Qual è il tuo segreto?

Innanzitutto, accade l’esatto opposto di quello che pensano giornalisti e pubblico: guardando Rosetta ma anche La promessa, sono molti a credere che quelli sullo schermo non siano attori professionisti e quindi che tutto sia il risultato di una gestualità spontanea. In realtà, quando lavori con i Dardenne non hai nessuna libertà. Con loro il metodo è sempre lo stesso: ti danno la sceneggiatura e poi provi tutte le scene nella location prescelta. Nel corso delle stesse, in base a come recitano gli attori, magari cambiano un po’ di battute. Per un mese provi tutte le scene; poi, quando cominci a girare, fai una prova di circa mezz’ora la mattina, sempre nella location. Dopodiché mettono le luci; poi viene la macchina da presa. Il loro cinema è una coreografia di un duplice movimento: quello del  corpo dell’attore e l’altro, della macchina da presa. Siccome è tutto ripreso  in piano sequenza, tu non puoi improvvisare niente, perché c’è il movimento della macchina da presa, che magari viene a prenderti un pezzo di viso o di braccio. Dopo il primo ciak, se tu fai una cosa che a loro piace, sai che dovrai ripeterla anche nel secondo. Capita allora che quei due movimenti siano quelli da ripetere per ottanta, novanta ciak. Paradossalmente l’emozione nasce sempre dal disagio, da una difficoltà inaspettata.

Innanzitutto, grazie per questa lezione di cinema. Il disagio nasce dal movimento del corpo o dalla complessità della recitazione?

Si tratta di una condizione già teorizzata, che ho avuto modo di capire dopo tanti anni e dopo molti film girati con loro. Il disagio nasce dagli ostacoli che i Dardenne  mettono alla tua recitazione. Non facevo altro che inciampare su oggetti messi apposta di traverso; in più, mentre parlavo mi facevano sempre fare tante cose, prendere dei soldi, delle lattine di coca cola e altro ancora. È in quella maniera, non pensando più alla recitazione, che viene fuori qualcosa di più profondo. Il loro cinema funziona così.

In effetti in Rosetta – ma non solo lì – ci sono intere scene sequenze dove tu sei fuori campo e si sente solo la tua voce. Mi riferisco per esempio alla sequenza in cui cadi nel lago. Il paradosso vuole che in quel modo tu sia più presente che se fossi in primo piano.

Sì, perché per i Dardenne il fuori campo è una cosa molto importante. Nel loro cinema ce n’è sempre tanto, perché considerano il suono importante quanto l’immagine. Spesso ci sono scene  vuote, senza personaggi, ma solo con i rumori ambientali. Per questo il suono deve essere perfetto.

La tua fisionomica è spigolosa e per questo favorisce l’interpretazione di personaggi minacciosi. Al contrario, il timbro della tua voce è molto morbido e dunque ti agevola in termini di empatia. Questo per dire quanto sia vasta e credibile la tua gamma espressiva.

Forse ho sbagliato perché per anni non ho mai voluto pensare molto a questo aspetto di me. Come attore, adesso, ho un solo scopo ed è quello di riuscire a far uscire da me, e dal mio corpo, gesti ed espressioni che non ho preparato e che non mi aspettavo; delle azioni in grado di sorprendermi. Penso al modo di dire una battuta, a un determinato movimento. Per arrivare a tanto, devo comunque lavorare, fare delle prove, studiare bene la parte.

Fin qui ho fatto molti film dicendomi: “Provo a fare cose nuove evitando di prepararmi bene per la parte”, proprio per mantenere questa fragilità. Ho capito che ho un po’ sbagliato, perché questa fragilità non mi ha consentito molta  libertà. Dunque ciò che mi stai dicendo per me sono cose molto interessanti da sentire, perché so che mi aiuteranno ad andare sempre più avanti nella mia preparazione, per arrivare a quella libertà di cui adesso ho bisogno. Prima non volevo proprio pensare a questa aspetto: sono un figlio dei Dardenne, nel cinema sono stato creato da loro, per cui tra di noi non parliamo mai del personaggio e della sua psicologia. Se tu chiedi loro qualcosa sulla tua parte, ti risponderanno sempre: “Proviamo”.

Quindi è l’azione a essere privilegiata?

Per loro la cosa più importante è recitare,  non pensare alla recitazione. Se tu pensi qualcosa sul tuo personaggio ti diranno: “Vai, fallo! Proviamo la battuta. Fai come vuoi tu” e poi giudicheranno se è giusto o sbagliato. Finendo per lavorare sempre con loro, ho dato per scontato che funzionasse così anche per gli altri registi, per poi capire che dipende dal cinema che fai. Per certi autori la psicologia conta, eccome.

Tu lavori molto con lo sguardo, essendo uno di quegli attori capaci di guardare in macchina  per parlare al cuore dello spettatore.  I tuoi occhi diventano il più delle volte uno specchio dell’anima e per questo dispensatori di emozioni.

Grazie! Forse dipende dall’aver avuto  un’infanzia timida e solitaria. Fino a vent’anni ho avuto pochi amici. Senza un padre e con mia madre sempre fuori casa, ho vissuto da solo: ricordo  di essere stato cresciuto dai miei nonni che erano dei contadini del sud Italia. Ci volevamo davvero bene, però il nostro rapporto non passava dalla parola: con mia nonna era scandito dal cibo, mentre con il nonno attraverso il corpo. Lui non parlava molto quando mi portava in giro. Non so se sia legato al mio carattere o forse alle cose che ho vissuto, però ricordo che già da bambino guardavo e non dicevo niente. Dunque penso che il mio modo di essere sia legato al tipo di infanzia che ho avuto.

I tuoi personaggi italiani spesso sono tratteggiati senza un preciso elemento autobiografico. Del loro passato il più delle volte non sappiamo nulla.

Sì, ma questo fin qui è dipeso dal mio modo di parlare italiano: andavo alla scuola francese, dunque non l’ho mai studiato. A casa i miei nonni parlavano il dialetto di Cassino e io rispondevo in francese perché i miei amici erano belgi o francesi. A casa ovviamente si parlava un po’ di italiano e questo mi ha permesso di impararlo un po’. Lavorare nel cinema mi ha consentito di migliorarlo, però ho sempre avuto una cadenza per cui le persone faticano a capire da dove vengo, non sapendo se sono del nord o francese. Questa cosa sicuramente mi dà un qualcosa di misterioso.

In due giorni, una notte reciti un ruolo che mi ha ricordato quello di Timothy Spall in Segreti e bugie di Mike Leigh.

Sai che Mike Leigh è uno dei miei registi preferiti e poi Segreti e bugie è forse il film della mia vita.

In entrambi i film i vostri personaggi  sono quelli cui spetta il compito di tenere in piedi la famiglia. Come quello di Spall, il tuo ruolo è quello di buon samaritano pronto a farsi carico delle pene dell’altro.

In realtà, non ci avevo mai pensato: lo hai fatto tu per me, dunque  prendo per buona la tua affermazione.

Ne L’amore a domicilio, Emiliano Corapi ti dà l’occasione per tirare fuori la tua vena comica. Penso che almeno in Italia sia la prima volta che ti succede.

Sì, perché Corapi è stato il primo regista con cui ho lavorato in Italia. I figli e i nipoti di immigrati hanno tutti un sogno, che è quello di tornare nella madrepatria. È un desiderio con cui tu cresci e quindi da bambino il mio unico scopo era andare a vivere in Italia. Rosetta, che da voi è andato benissimo, ha favorito il mio ritorno. Ancora oggi mi fa impressione quanto affetto ci sia in Italia intorno ai lavori dei Dardenne. Sul set scopro che attori registi e tecnici hanno visto tutti i loro film. In Belgio non è così, cioè non sono apprezzati come in Italia.

Nessuno è profeta in patria.

Come sempre. Dopo Rosetta, la prima persona che mi ha chiamato dall’Italia è stato la casting di Emiliano con cui ancora oggi lui lavora. Quindi il primo film italiano è stato il suo cortometraggio. Poi sono arrivate la  Comencini e Chiara Mastroianni con cui ho fatto Le parole di mio padre.

Ne L’amore a domicilio il  ruolo di Franco ti permette di sondare delle situazioni da slapstick comedy in un accumulo continuo di situazioni  tragicomiche.

Sì, sì, mi sono divertito a farlo, perché ho amato tantissimo la sceneggiatura. Mentre la leggevo non facevo che ridere. Avendo già lavorato con Emiliano, era molto più semplice provare delle cose nuove, perché al cinema non faccio commedie, purtroppo. Per quel genere di film devi essere a tuo agio, per far sì che anche il pubblico lo sia e quando lavoro con lui sono sempre tranquillo, perché ormai è un amico. Mi sono quindi permesso di provare soluzioni che non avrei mai sperimentato con i Dardenne o con altri registi. Mi sono divertito senza pensare al personaggio. Tutto qui.

 

Quali sono i tuoi attori di riferimento e qualche film che ti piace in modo particolare?

È una bella domanda questa, perché amo tantissimo il cinema e per esempio la commedia all’italiana che per me è un punto di riferimento. Non è una cosa così scontata, perché  in Belgio e in Francia Dino Risi, Vittorio De Sica e altri sono autori non così conosciuti come in altre parti del mondo. Per me invece sono dei punti di riferimento, perché autori dei film che guardavo da bambino sulla Rai. Altri registi che amo sono Ken Loach, Mike Leigh, mentre adoro i thriller coreani. Come attori ce ne sono così tanti: chiaramente Sordi, Gassman, Manfredi.  In generale, gli italiani sono un punto di riferimento proprio per la libertà che avevano. Ancora oggi, quando mi rivedo i loro film scopro sempre nuovi aspetti della loro recitazione e mi rendo conto che per esempio Alberto Sordi aveva una libertà che forse derivava proprio dal non preparare la sua parte in maniera così dettagliata. In un’intervista a Marcello Mastroianni, ho letto che lui non preparava nulla. Era un genio e si vede nella libertà delle sue interpretazioni. Al contrario degli attori di oggi, che magari sono più dipendenti da mille metodi, e appaiono più stressati quando si tratta di preparare un ruolo.

Lo stesso faceva Michel Piccoli. Forse è una libertà che dobbiamo ritrovare. Ci sono poi gli attori americani come Di Caprio, Brad Pitt di cui ho amato l’interpretazione in L’assassinio di Jesse James per cui ha vinto la coppa Volpi a Venezia. Lì ha fatto una prova mostruosa.

Per concludere, mi hai  parlato della tua prima sceneggiatura e mi hai detto che sarà una commedia. La dirigerai tu e, se si, sarà in Belgio?

Sì, il personaggio è un uomo un po’ ipocondriaco, quindi sarà in qualche modo una proiezione di me stesso, (ride, ndr). Ci vorrà ancora un po’ di tempo perché questo succeda, perché stiamo ancora in fase di finanziamento. Di sicuro c’è che prima o poi lo farò.

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