Le Stanze di Rol, al Torino Film Festival, cambiano decisamente toni consegnandoci un’opera che si muove sulla destrutturazione. Funny Face firmata da Tim Sutton, si allontana da strutture definite e dai contorni delineati, per raccontare tutto quello che c’è nello spazio emotivo di confine.
Funny Face: la trama.
Nel cielo di New York, una maschera precipita dal cielo. Saul (Cosmo Jarvis) la raccoglie e la indossa diventando un eroe mascherato per fare giustizia di una speculazione edilizia senza regole, disposta a liberarsi degli ostacoli per trovare nuovi spazi da cementificare. Saul è impegnato nella lotta contro lo spietato costruttore miliardario Jonny Lee Miller, trova la compagnia di Zama (Dela Meskienyar) in fuga dalla famiglia, che gli contesta uno stile di vita emancipato.
Lo spazio urbano in Funny Face.
In una New York pressoché deserta, in cui i due protagonisti si incontrano quasi per caso, Sutton ci traghetta in una città dai contorni rarefatti e, in cui tutto assume senso nella dimensione del controluce di un’alba o di un tramonto.
Il ritmo ansiogeno, scadenzato da una colonna sonora elettronica sgocciolante, alimenta il desiderio di vendetta verso il potere e un sistema ormai prostrato a valori ben lontani dal bene pubblico. La chiave di lettura, dietro al tema della gentrificazione e della speculazione edilizia, è in una conversazione fra il costruttore e il padre, finanziatore di progetti edilizi dell’epoca precedente.
La conversazione diventa un utile episodio di confronto per evidenziare le diverse modalità di sviluppo fra le generazioni e, come esse abbiano subito un cambiamento motivazionale spostandosi, piuttosto, verso un orientamento predatorio, incapace del tutto di scorgere la bellezza e la promozione del benessere comune.
Per dirla con l’architetto norvegese Christian Norberg-Schulz:
«chiunque elegga entro il suo ambiente un luogo in cui stabilirsi e vivere è creatore di uno spazio espressivo. Con la sua scelta l’individuo dà significato all’ambiente, assimilandolo ai suoi scopi, e adattandosi allo stesso tempo alle condizioni che sono ad esso pertinenti».
I personaggi dentro allo spazio urbano.
Questo si può ben evidenziare dagli stessi comportamenti di rabbia di Saul: scatti d’ira tipici di tutti quei personaggi borderline, che abitano ai margini del contesto urbano. La speranza in tutto ciò è Zama la cui presenza serve a percepire il tutto in ottica più attenuata e dai confini più morbidi, rendendola quasi letteralmente e visivamente vaporosa. Una nota d’amore per due orfani, costretti a combattere una battaglia importante alla conquista della propria identità.
Eccoli che li vediamo vagare in una flânerie che ha tutta l’aria di una fuga da quel mondo, ormai totalmente, insensibile alle loro esigenze in quanto Uomo che abita un Luogo.
L’eroe?
Nel film molti sono gli echi cinematografici a Taxi Driver (1976) o, al più recente, Joker di Todd Phillips. Prescindendo dalla citazione a livello tematico, l’azione di coprirsi la faccia si fa simbolo di ribellione e, il primo parallelismo didascalico fra il niqab di Zama e la maschera del protagonista, diventano metafora del povero che si nasconde dietro a un sorriso fasullo e beffardo con l’intento di deridere l’oppressore.
Al regista tutto ciò non interessa, vuole piuttosto concentrarsi verso una dimensione rarefatta fatta da tempi dilatati. Il protagonista Saul vorrebbe essere un supereroe, ma non è nient’altro che un uomo espulso dal sistema: la questione va oltre il supereroe e diventa così questione identitaria.
La visione di Tim Sutton.
Si abbandona alla dimensione del sogno o meglio all’utopia di una realtà presente che schiaccia. Nelle ripresa il regista strizza un occhio ai fratelli Safdie e a Nicolas Winding Refn fra chiari, scuri e luci al neon. L’occhio della macchina da presa in Funny Face è contemplativo; ecco quindi che congela le immagini, vagando per una New York vuota, puntando l’occhio critico della cinepresa verso una speculazione edilizia sfrenata e in cui tutto è mero guadagno.
I personaggi, alla Pasolini, non possono altro che essere due estremi difensori della urbs e della civitas. Ne consegue essi rispondono come elastici: reagiscono al proprio equilibrio con una spinta proporzionale alla forza loro impressa con delle varianti a seconda della tensione trasferita all’elastico stesso. Non è un caso che i personaggi vaghino senza traiettorie ben definite, nelle quali avanzano per poi tornare nuovamente indietro. Sutton non può fare altro che “pedinarli” nelle loro lunghe camminate, con carrellate laterali ed a volte, di spalle.
Funny Face nel Vuoto
I protagonisti fanno del vuoto una dimensione creativa e abitabile, al contrario per gli speculatori folli il vuoto è pura assenza da riempire, traducendosi in occupazione speculativa. La flânerie serve a Zama e Saul per rivendicare il vuoto nella sua dimensione di essenza, ribandendone la funzione urbana primaria a quella del non utilizzo.
Sutton traduce questo con riprese in campi lunghi e in spazi desolati in cui i due attanti agiscono nel contesto spaziale, non perché presenze necessarie, ma bensì come pura vibrazione che interagisce e reagisce all’ambiente. Non è un caso, a questo proposito, come l’interpretazione di Jarvis restituisca molto bene questa costante vibrazione. In un’agitazione istintiva molecolare e in costante sinergia vibrazionale con il mondo circostante: una tensione che è prima di tutto personale e secondariamente sociale; all’opposto la tensione sociale si fa così nuovamente personale.
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