La catastrofe naturale è un topic che attraverso spesso le produzioni artistiche, passando per la pittura, letteratura, sino ad arrivare alla cinematografia.
A questo chiaramente non sono esenti i manga e i riadattamenti animati. Recentemente Netflix ci ha abituato a simili opere, come ad esempioTokyio Magnitude 8.0 per alcuni versi molto simile alla serie anime di cui andiamo parlando.
Il rapporto con il romanzo
Japan Sink diretta da Masaaky Yusa grazie alla collaborazione con lo studio Science Saru è sbarcata su Netflix lo scorso 9 luglio.
Il regista è famoso per altri titoli presenti sulla piattaforma, primo tra tuttiDevilman Crybaby un piccolo capolavoro in 10 episodi.
Japan Sink è il riadattamento del famoso romanzo apocalittico Nihon Chinotsu di Sakyo Komastu. Lo scritto analizza attraverso la catastrofe naturale le contraddizioni socio/ culturali del Giappone negli anni 70, una lente presente se pur con notevoli diversità nell’opera di Masaaky Yusa.
La principale differenza sta nella scelta dell’arco narrativo descritto.
La serie anime strizza l’occhio ai problemi della contemporaneità, essendo ambientata proprio alle soglie del 2020. Per forza di cose quindi è presentata una nazione notevolmente cambiata in mezzo secolo che comunque continua ad affrontare ataviche difficoltà.
Un esempio è il rapporto con le tecnologie che se da una parte sono ormai indispensabili, dall’altra mistificano la realtà sino a renderla incomprensibile.
Una contraddizione vissuta proprio dai protagonisti della storia, che nella difficoltà diventeranno vittime di fake news non sapendo più a cosa, e a chi credere.
Per quanto diversi nell’ambientazione il romanzo e la serie si raccordano su uno specifico punto, quello che in sociologia è definito “ un fatto sociale totale”.
Per chi conosce e ama il paese del Sol Levante, sa benissimo che nella sua storia contemporanea emerge continuamente il rapporto fra tradizione e occidentalizzazione.
Una relazione spesso conflittiva e sofferta tratteggiata anche in Japan Sink.
La trama
Un tremendo terremoto devasta il Giappone, la famiglia Mutou protagonista della storia è costretta a intraprendere un viaggio disperato per la sopravvivenza.
Le caratteristiche psicologiche dei personaggi rispecchiano le contraddizioni principali della cultura giapponese, un dato evidente soprattutto nei membri della famiglia.
Ci sono i coniugi Koichiro e Mari una coppia interrazziale alle prese con un paese spesso molto chiuso alla figura dell’altro. I loro figli sono la quattordicenne Ayuma che appare pienamente integrata e felice nel paese in cui vive. Altra storia è per il figlioletto Gou, alle prese con un’esterofilia che si manifesta nei suoi continui inglesismi.
Man mano che si addentrano in un paese ormai al collasso, altre figure di disperati si aggiungono a loro divenendo parte integrante del gruppo.
Troviamo Kite, un celebre Youtuber dalle molteplici capacità tanto d’apparire spesso come la provvidenza, Kunio Ashida, anziano legato alle tradizioni e sconvolto dalla morte della nipote, e Haruki Koga compagno di Ayume.
Sopra di tutti c’è la catastrofe naturale che agisce come un deus ex machina, annichilendo le diversità individuali e collettive.
Il regime narrativo segue un’impronta molto realistica, lo spettatore dovrà abituarsi a perdere in ogni episodio delle figure chiavi per la storia.
Come in un mondo reale la natura sovrasta l’umanità decidendone l’inizio e la fine.
Una crepa nella serie
Nel complesso i 10 episodi sono sicuramente godibili pur se con delle notevoli crepe, tra cui la più profonda è aver inserito troppi elementi. Nonostante la serie scorra con una certa linearità, si avverte spesso una sensazione di fretta.
Molti elementi di certo interessanti come ad esempio il rapporto tra informazione e tecnologie non sono eviscerati in maniera appropriata, finendo con il divenire superficiali.
Tra tutti i temi quello cui è concesso maggiore spazio e profondità d’analisi è sicuramente il rapporto con lo straniero.
Occidente o oriente?
Se si dovesse identificare il Giappone con un simbolo, probabilmente, si sceglierebbe il monte Fuji. Lo stesso avviene dentro Japan Sink anche se con una valenza invertita, infatti, in questo caso il Fuji è la condanna della nazione.
Nell’ anime il Giappone non è solo sconvolto da una serie di terremoti, ma rischia di scomparire totalmente nelle acque affondato proprio dal suo simbolo più famoso.
Eccolo che allora Japan Sink diviene la metafora di un “ fatto sociale totale”, in altre parole il fantasma di quel processo d’occidentalizzazione che ha trasformato il paese.
Rivedendo Silence scevri da pietas cristiana, ci si può rendere facilmente conto di come il Giappone si sia sottratto a lungo dalle grinfie occidentali.
Durante il film di Martin Scorsese, lo shougun si rivolge all’evangelista utilizzando queste parole:
“ Vedete per noi il cattolicesimo è come una brutta moglie che ci vuole sposare, noi non ne vogliamo sapere”.
Dove non arrivò la parola di Cristo, giunsero i cannoni americani e l’epoca Meji che inaugurò la totale riconversione del paese.
Allo stesso modo Japan Sink riflette su questo rapporto misto e contraddittorio che lega il Giappone all’occidente.
La scena rappresentativa di ciò è verso la fine della serie, dove i protagonisti si sfidano a colpi di rap, accusando e difendendo la cultura orientale.
Da una parte il piccolo Gou inveisce contro i giapponesi accusandoli d’esser dei repressi e dei conservatori lontani anni luce dalla modernità. A ribattergli è Haruki Koga che difende la propria nazione, asserendo che questa timidezza è solo orgoglio e proprio da questo che il popolo giapponese trae la propria forza nelle difficoltà.
A chiudere il cerchio è la protagonista Ayume, che rappresenta la via di mezzo, ricordando ai suoi sfidanti come ogni paese ha le proprie vergogne e miracoli.
Proprio questa via di mezzo è la faccia del Giappone contemporaneo, una nazione orientale con un modello sempre più occidentale.
Japan Sink sicuramente con dei limiti evidenzia questo rapporto sofferto, ricordando come da qualche parte nell’isola la spada di Mishima pulsa ancora.