Una voce fuori campo narra ricordi della giovinezza e l’emozione di percorrere l’intera città per andare al concerto della propria band preferita. Si vede una ragazza giovane che si muove rapita verso il palco a ritmo di musica. Siamo nel 2007 ed è autunno. Beatriz si è recata insieme alla band presso la diga di Jurumirim, un posto paradisiaco nella capitale dello stato omonimo di San Paulo del Brasile, dove il cantante ha la sua residenza estiva. Ha 16 anni, ed è profondamente attratta dal leader del gruppo musicale Rogerio; ha perso la madre e si è trasferita con il padre da Buenos Aires a San Paulo. L’espulsione da scuola la induce ad allontanarsi da casa e da un padre assente.
Raccontata in quattro capitoli la storia passa dal 2007 al 2009, fino al 2013 per finire nel 2016; una frammentata e a tratti intensa relazione tra Beatriz e Rogerio, di oltre 20 anni più anziano di lei. Il primo giorno, dopo il concerto, a Jurumirim, nella casa di proprietà del nonno di Rogerio, leggenda della musica brasiliana fine anni ’70 e ’80, il quarantenne decide di riportare a casa la ragazza e la accompagna a prendere un mezzo pubblico ma lei, incontrata la band, si reca di nuovo con loro presso la casa di famiglia dell’artista. E mentre Rogerio è combattuto, deve trovare ispirazione e un posto nella scena musicale, la ragazza, ribelle e sola cerca di sedurlo, intravedendo probabilmente in lui una figura paterna.
Beatriz è un’adolescente che autoinfligge al proprio corpo continue pene: si taglia e si brucia con la sigaretta. Sacrificando una parte di sé nel dolore fisico tangibile e circoscritto cerca di lottare contro una sofferenza psicologica invadente; il suo non è un tentativo di suicidio, ma un infantile tentativo di vivere; procurarsi il dolore fisico per mettere a tacere quello esistenziale e per sentirsi viva. Il padre empirico risulta assente e inefficace e lei si taglia non perché rifiuta l’ordine paterno, ma perché rappresenta il risultato di non essere entrata nel simbolico per la debolezza del Nome del Padre. Il rifiuto di sé che passa attraverso il corpo la porta alla chiusura e insieme alla esibizione e alla cura amicale ed erotica del contatto con l’uomo per assenza di uno spazio nel desiderio del padre.
Rogerio è un uomo adulto qualunque, e Beatriz cercherà attraverso lui un posto nel quale collocarsi; entrambi solitari e in cerca di qualcosa, si consoleranno e si feriranno, si incontreranno e si eviteranno, si cercheranno e si allontaneranno reciprocamente. Lunghi silenzi accompagneranno domande assordanti come chiedere all’artista se preferirebbe esser un musicista famoso e morire giovane oppure invecchiare ma non essere riconosciuto. Rogerio sceglierà l’opzione del godimento fallico, limitato mentre Beatriz parlerà della medusa che può rigenerarsi da un suo frammento fino a poter essere immortale.
Un incontro impossibile quello tra il cantante che insegue il successo e usa l’amore come distrazione e l’adolescente che asseconda la sua instabilità nella domanda illimitata di amore. Beatriz non cederà e continuerà a forzare un incontro, nell’illusione di una permanenza: ma Rogerio non le rivolgerà mai alcun frammento d’amore, troppo distratto dal proprio ego e indifferente alle ferite altrui. Solo il finale vedrà una catarsi, apparente, reale, esistenziale o forse l’ennesima illusione di lei che consolida la radicale disillusione di lui.
Il titolo del film di Daniel Barosa prende spunto dalla canzone di un cantante argentino Alberto Cortez che Rogerio suona per Beatriz chiamandola “Bonita“. Primo lungometraggio di finzione di Daniel Barosa dopo un documentario musicale, vede una coproduzione tra Argentina e Brasile girata in digitale e in 16mm per suscitare una visione opaca, rarefatta, disturbante. Il tentativo di raccontare l’ impossibilità di un amore affetto da una distanza trascendentale, rimane tuttavia fragile. Una narrazione algida, emotivamente inefficace, crea uno spazio che dilata la distanza tra ciò che accade e l’attesa. Uno spazio che annulla il tempo dell’attesa a meno che non sia la fine, qualunque sia. Un’occasione ampiamente persa: un film che non costruisce alcuna intimità con lo spettatore, una finzione che racconta l’impossibilità di un amore come un esperimento da laboratorio non riuscito.