“I’m going to go with these guys and live their dream”. Noran Stolerman lo definisce il racconto di un sogno questo suo documentario girato in tre anni che racconta dei The Field People, band Rock formata da tre ragazzi del kibbutz: Lavi, Yogev e Evyatar. Alienati dalla vita in Israele, nel loro cuore c’è il sogno della fuga, l’attesa della gloria e del successo, un “campo” di sogni e speranze che parlano inglese e guardano all’Occidente moderno come speranza di libertà artistica e di “respiro” vitale.
I tre partono per Londra, fuggendo da noia, alienazione mentale, più che sociale, e frustrazione, ma si scontreranno con una realtà amara: il successo non è poi così facile da raggiungere, suonare nei locali londinesi con un pubblico numeroso non è così scontato come la tv gli aveva fatto credere; Londra, caotica e costosa, è un mondo duro da cui emergere e i pregiudizi legati alle loro origini sono difficili da superare. E così il ritorno in patria diventa necessario pur conservando da parte il sogno, continuando a coltivarlo in quel campo deserto, accarezzandolo e rifugiandovisi dentro di tanto in tanto nei momenti di oblìo.
A frenarlo con prepotenza sarà poi la famiglia, proponendo una scelta obbligata e, dinanzi al dramma, si comprende infine che “restare” la dove è necessario non sembra altro che l’unica cosa da fare. L’ideale della famiglia da proteggere vince sul sogno del successo ed è proprio la “famiglia” forse il concetto trainante dell’intero documentario; il nucleo soffocante da cui fuggire inizialmente (che pur non vediamo mai in video), il gruppo creato dai ragazzi con la lor Band e in cui identificano la vera famiglia a cui sentono di appartenere, l’amore e le cure per la madre malata e, infine, il nuovo contesto nato alla fine dalle ceneri del fallimento collettivo, con la scelta di restare e di rimettere le proprie radici in Patria. Appartenere a qualcuno sembra molto più importante da mostrare dell’appartenenza a un luogo fisico e il documentario, nelle sue interviste ai membri del gruppo, indugia spesso nel racconto delle solitudini interiori dei ragazzi, nel desiderio del “pubblico numeroso”, nella necessità del rumore che venga a colmare il fastidioso silenzio della notte nel kibbutz. Il gruppo alla fine si scioglie e, si legge sui titoli di coda, ognuno prenderà la sua strada, con nuovi compagni di vita e con la musica ad affiancarli sempre.
Si conclude così questo viaggio di formazione-consapevolezza verso l’acquisizione di un’identità confusa, che lo spettatore in realtà non avverte come maturata neppure alla fine di The Dreamers’ Field; il regista, soprattutto nella seconda parte, ha però sicuramente saputo mostrare la frustrazione del non-luogo, la solitudine interiore e il vuoto difficile da colmare e, soprattutto, l’inquietudine di un Popolo che non riesce a trovare davvero un posto “suo”, un “campo” da coltivare davvero e con cui identificarsi completamente: “La principale ragione per cui ho voluto fare questo film è per mostrare che questi ragazzi non sentono di appartenere a qualcosa”, afferma infatti Stolerman. I Feild People sono prodotti di un desiderio, anime perdute che usano la Musica come fuga e che la Musica trascina insieme: This is not a film about music, …this is a film about people.
Sandra Orlando