Lo scorso 26 settembre il pubblico ravennate ha potuto bearsi di un’occasione decisamente ghiotta: poter assistere alla proiezione di un gioiellino del cinema muto, Kurutta ippeji – A Page of Madness di Teinosuke Kinugasa (Giappone 1926), con l’accompagnamento dal vivo del trio bolognese KyoKyoKyo. Simili operazioni nei festival non sono certo una novità. Ma quando si sprigiona la giusta alchimia tra le immagini di un capolavoro del passato e la creatività di musicisti capaci, attraverso la loro sensibilità, di dialogare con esse, il risultato è spesso stupefacente. Lode quindi a KyoKyoKyo, l’affiatato terzetto che facendo ricorso a sonorità ossessive, metalliche e disturbanti, nella loro impronta a tratti minimale, ha saputo rendere bene le atmosfere allucinanti e angosciose della pellicola diretta da Teinosuke Kinugasa: nome importante del cinema giapponese dell’epoca, la cui filmografia meriterebbe, forse, una maggiore divulgazione in Italia e più in generale nei paesi occidentali.
Evento speciale di un’edizione particolarmente intensa e variegata del SoundScreen Film Festival, tale lungometraggio può inoltre fregiarsi di un’altra partecipazione artistica di alto livello: ci riferiamo ovviamente a Yasunari Kawabata, scrittore destinato a ricevere nel 1968 il Nobel per la letteratura, che in questa circostanza aveva collaborato alla sceneggiatura adattando, insieme a Banko Sawada, Minoru Inozuka e Kinugasa, un suo racconto breve.
La traccia narrativa del film, peraltro, non risulta sempre di immediata decifrazione per il pubblico odierno, il che non dovrebbe stupire più di tanto, se si considera questo: creduto definitivamente scomparso per ben 45 anni, Kurutta ippeji fu ritrovato per caso dallo stesso regista e diffuso nuovamente nel 1971. Il lungometraggio non contiene didascalie perché le proiezioni cinematografiche giapponesi negli anni ‘20 prevedevano la presenza in sala di un narratore (detto benshi o setsumeisha), senza contare che la copia arrivata a noi manca di un terzo dell’originale del 1926.
Fatte queste premesse, riguardo alla trama ci limitiamo a dire che essa pone in primo piano la struggente, morbosa vicenda di un ex marinaio assunto come inserviente in un manicomio. Fra i ricoverati vi è sua moglie, impazzita dopo aver tentato di annegarsi assieme al proprio bambino: sopravvissuta lei, morto il figlioletto. Vediamo il marito tentare inutilmente di far evadere la donna, che però appare annichilita, terrorizzata, di certo non in grado emotivamente di affrontare con successo la fuga…
Trasferendo i deliri della mente umana nell’architettura formale così ansiogena ed ossessiva della pellicola, la regia di Teinosuke Kinugasa ha qui il merito, tanto nelle riprese che in un montaggio a sua volta ipnotico, di amplificare il malessere, il senso di soffocamento e le paranoie dei personaggi, appoggiandosi con ingegno agli strumenti più in voga del cinema d’avanguardia degli anni ’20. Un piccolo capolavoro del genere, insomma, che merita senz’altro di essere riscoperto. Meglio se con un idoneo accompagnamento musicale, come si è potuto constatare a Ravenna.