Il dott. Wallace Fiennes, nel 1954, era un fautore di cure estreme per le malattie mentali: girava quindi per l’America praticando lobotomie ed elettroshock. The Mountain, dove Fiennes ha l’andatura sbilenca di Jeff Goldblum, racconta di lui e del suo aiutante, Andy, un giovane da poco orfano di padre alla ricerca della madre persa in qualche ospedale psichiatrico, che sperando di ritrovarla si offre di effettuare un reportage fotografico sulle sue operazioni mediche. Il film di Rick Alverson, ruota, quindi, intorno a loro due, ai loro occhi e soprattutto ai loro sguardi, immersi in una bruma esistenziale di disagio psichico, sfumati, sfuggenti come i luoghi dell’anima, perennemente in sottrazione, mentre racconta la loro storia per ellissi, seguendo una narrazione più emotiva che logica, che a sua volta segue i moti ondivaghi della mente.
Peccato che il film parta però bene, slargando i confini della messa in scena tradizionale con lunghe e ipnotiche sequenze mute che si alternano a movimenti sinuosi e silenziosi tra ralenti e piano-sequenza, per poi arenarsi, ristagnando, nelle sue stesse altissime ambizioni, tra l’incertezza di non sapere dove andare e il poco felice deragliamento verso linee narrative più convenzionali. Senza però rinunciare a uno straniante senso di sospensione: ed è così che alla fine il film rimane sospeso fra due mondi, incapace di fonderli in maniera coerente nonostante l’aiuto di due bravissimi interpreti quasi perennemente in scena e che sembrano completarsi l’un l’altro. Goldblum con la sua aria svagata, il suo essere perennemente altrove, è eccellente nel suo smarrimento sensoriale, come se la sottrazione del senso di realtà dei suoi pazienti si trasferisse ogni volta su di lui, artefice ignaro di dolore e sofferenza; dal canto suo, Tye Sheridan centra perfettamente il suo personaggio e regala i momenti più felici e surreali, immerso nelle spire mentali della sua ossessione freudiana. The Mountain non riesce a superare i suoi stalli, i suoi punti morti, ondeggiando incerto fra una ricerca formale estetizzante ed estrema e la voglia di liberarsi in un territorio sensoriale più anarchico, mentre assume inevitabilmente il gusto di occasione mancata.
GianLorenzo Franzì