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One day: il mondo che sogna di Hou Chi-Jan all’Asian Film Festival 2010

La sezione Concorso dell’VIII edizione dell’Asian Film Festival prende avvio dall’obliqua prospettiva di One day, opera prima di Hou Chi-Jan, regista taiwanese messosi in luce già con i suoi corti e col documentario-mappa sui film d’explotation taiwanesi degli anni ‘70 Taiwan Black Movies (2005), attirandosi l’attenzione del capofila della nouvelle vague taiwanese Hou Hsiao-hsien, che di questo primo lungometraggio è il produttore esecutivo

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La sezione Concorso dell’VIII edizione dell’Asian Film Festival prende avvio dall’obliqua prospettiva di One day, opera prima di Hou Chi-Jan, regista taiwanese messosi in luce già con i suoi corti e col documentario-mappa sui film d’explotation taiwanesi degli anni ‘70 Taiwan Black Movies (2005), attirandosi l’attenzione del capofila della nouvelle vague taiwanese Hou Hsiao-hsien, che di questo primo lungometraggio è il produttore esecutivo.

One day, presentato alla Berlinale 2010 nella sezione Forum, condensa un esordio acerbo ma promettente. Hou Chi-Jan galleggia e scava dentro la dimensione di un sentimento (l’amore) al suo stadio più puro e rivelatore (quello adolescenziale) e della sua perdita, nelle proprie sedimentazioni e stratificazioni temporali, che rivivono attraverso il sogno, mescolato alla realtà in modo così stretto da unire e confondere indissolubilmente i piani, fino a perderne la distanza.

Un apparente inizio minimalista fine a se stesso e un po’ affettato introduce la giovane Singing (Nikki Hsieh Hsin-Ying), svegliata nella casa galleggiante dove vive da un sogno del quale non riesce a decifrare l’essenza, e alla ricerca di una bussola da cui non si separa mai. La ritroviamo in prossimità del traghetto, isola galleggiante nella quale lavora; ‘nocchiero’, tra gli altri esseri che conduce, dei soldati taiwanesi a Kinmen Island, al largo della costa della provincia del Fujian, in Cina. Sulla balconata Singing incontra Tsung (Bryan Chang), un giovane soldato che osserva, malinconico e intento, una bussola. Lei non lo riconosce, e siamo già dentro un sogno. Ne entriamo ed usciamo in uno scambio tra materia ed inconscio che ricompone il puzzle della storia dei due giovani, nel quale vengono mescolate talmente bene le carte da rendere il limbo tra realtà e sogno l’unico luogo dove pulsioni e sentimenti possono fluire senza ostacoli, e non morire mai. Usando una prospettiva narrativa di questo tipo, Hou Chi-Jan ci trasmette il valore e il senso del riconoscersi e del ritrovarsi dentro lo scorrere della vita, nell’alienazione di celle-studio simili ad alveari privati, o di altri filtri che non permettono così facilmente di spezzare quel velo separatore che ci portiamo sin dalla nascita e che diviene terribilmente difficile da ricomporre, una volta squarciato.

Peccato che manchi sostanza visiva a tutto questo: la capacità di creare spessore e densità ad un minimalismo ancora troppo superficiale nell’interpretazione che la mdp gli conferisce. Troppo distratta e ancora poco esperta (data l’indubbia difficoltà di guardare in modo minimale), si lascia dietro parecchie sollecitazioni (anche catturare uno sguardo) che un occhio più maturo avrebbe saputo valorizzare. Ingenuo e ‘innocente’ (ma molto brutto rispetto all’andamento narrativo fino a quel momento), l’aver dato forma all’avvento del fato che spezza l’idillio semplificando e giustapponendo in maniera imbarazzante un incidente, forzando incomprensibilmente una credibilità che era addirittura riuscita a tenere la dimensione di ‘limbo’ e a dare sostanza.

Maria Cera