Il bellissimo documentario di Angelita Fiore sta raccogliendo consensi un po’ ovunque, in ambito festivaliero. Da sola la trasferta ligure è stata foriera di una doppia soddisfazione, considerando che ben due sono state le menzioni speciali attribuite al film, per aver partecipato al Genova Film Festival.
Una menzione speciale di grande prestigio è ovviamente quella che gli è stata tributata dalla giuria del Concorso Nazionale, sezione documentari, composta per l’occasione da Massimo Bagicalupo, Annamaria Gallone e Tarcisio Mazzeo. Non meno lusinghiera, comunque, risulta quella attribuitagli dalla giuria della Critica del 18° Genova Film Festival, con Claudio Bertieri, Furio Fossati, Massimo Marchelli, Anna Parodi e Aldo Viganò a rappresentare il Gruppo Ligure Critici Cinematografici.
Ma cosa c’è, in Uomini proibiti, che continua a impressionare positivamente sia le vagonate di addetti ai lavori, cui abbiamo fatto cenno prima, sia quel pubblico dal quale arrivano diverse domande e complimenti espressi con aria estremamente sincera, partecipe, emozionata, in occasione dei vari Q&A propiziati dalle proiezioni festivaliere? Innanzitutto vi è quella capacità, fondamentale, di approcciare un tema così delicato, scottante, corredato di implicazioni sociali profonde, scendendo nell’intimità delle persone coinvolte senza forzarla ma facendola rispecchiare e valorizzare, al contempo, da scelte di ripresa e di montaggio che conservano un notevolissimo appeal cinematografico.
In Uomini proibiti a essere preso di petto è un argomento come il celibato dei preti, che definire controverso è poco: sia da parte laica che negli ambienti meno retrivi della Chiesa cattolica si è aperta da tempo la discussione intorno a questi obblighi che, oggi più mai, sono in molti a vedere come anacronistici, contro natura ed estranei allo stesso messaggio evangelico. Ma, nonostante gli spiragli che l’attuale pontificato ha lasciato intravvedere, gli appelli firmati recentemente da alcuni tra i tanti preti che hanno dovuto lasciare il sacerdozio per via di una storia d’amore, così come quelli delle loro compagne di vita, non hanno ancora ricevuto da Papa Francesco alcuna risposta concreta; ed è facile ipotizzare che il Vaticano non cederà facilmente su un punto che, nonostante una sempre più evidente crisi di vocazioni, appare tristemente condizionato da atavici e comunque squallidi fattori economici: il destino dei beni lasciati in eredità dai preti alla loro morte, tanto per non girarci troppo attorno.
Il film di Angelita Fiore ci pone a contatto con tre differenti storie di preti sposati, tutte a loro modo emblematiche delle enormi pressioni psicologiche, famigliari e sociali cui sono soggetti coloro che vanno incontro a scelte difficili, per amore; scelte che li pongono in contrasto col peso di certi retaggi tradizionali, a ridosso dei quali il Cattolicesimo esibisce, tra svariate ipocrisie, una parte di quella sua vocazione autoritaria e apertamente contraria alla soddisfazione dei bisogni terreni dell’uomo: molto più accondiscendente ha saputo dimostrarsi, come provano le avvilenti esperienze degli ultimi anni, nei confronti di quei deprecabili casi di pedofilia che ne hanno minato nel profondo la credibilità, rivelando per l’ennesima volta un’attitudine omertosa, subdola e ambivalente, anche sul piano della morale.
Le parabole umane cui ci introduce il documentario in questione, con una sincerità di fondo e una sensibilità davvero apprezzabili, non si limitano a rappresentare il punto di vista di quegli uomini costretti ad abbandonare il sacerdozio con le loro differenti reazioni emotive (diversi gli uomini, diversa la tempra: due di loro hanno reagito dignitosamente e con grande umanità alla nuova situazione, seppur elaborando un sofferto percorso durato anni, mentre scopriamo da subito che il terzo ha finito per sottrarsi alquanto meschinamente alle responsabilità nei confronti della compagna e persino di una figlia; cedendo così, con una certa viltà, al ricatto morale esercitato dalla Chiesa, dalla propria famiglia, da tutto l’ambiente circostante), ma propongono anche il ruolo altrettanto interessante delle donne che hanno accettato di vivere i loro sentimenti prima clandestinamente e poi combattendo quel senso di vergogna, inculcato loro da una società conformista e bigotta, pur di portare avanti relazioni che hanno lasciato un segno tanto profondo nella loro vita. Sia i momenti del ricordo, sia l’esplorazione degli ambienti che fanno da cornice alla quotidianità dei protagonisti, sono accuratamente osservati dall’obiettivo di una videocamera che si aggira sul volto dei soggetti che si raccontano, come negli altri spazi filmici, con una curiosità cui non viene mai meno quel tatto, necessario a rivangare i passaggi cruciali di simili scelte esistenziali. Un’altra nota di merito, questa, che la regista deve spartire col bravissimo Andrea Dalpian, direttore della fotografia i cui giochi di messa a fuoco sulle facce dei protagonisti o nella penombra di una chiesa riescono a rivelare davvero tanto.
Stefano Coccia