Dal Rome International Documentary Festival il fascino verso i linguaggi del reale è sconfinato, come dimostra il suo programma che ogni anno si interroga sul valore del cinema del reale. A volte si fa forma simbolica, estetica del realismo, altre il documentario non è che un discorso serissimo su un materiale emotivo da maneggiare, sociale o privato che sia.
Quest’ultimo è il caso di Monica Vanesa Tedja, regista non binary cino-indonesianə in concorso Short-Doc con My Therapist Said, I Am Full Of Sadness: sensibile autoterapia filmica dove lə regista rilegge una storia familiare scissa tra immagini del passato e vita presente. Tedja costruisce un video-diario di vulnerabilità tra la famiglia biologica cristiana devota e quella adottiva e queer costruita a Berlino.
Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con lə regista a proposito del corto inteso come auto-terapia, del legame inestricabile con l’infanzia intesa come scoperta di sé e dei suoi film dedicati al desiderio di sentirsi accettati e amati.
Il cinema come auto-terapia
Monica, a partire dal titolo il tuo cortometraggio My Therapist Said, I Am Full Of Sadness sa tanto di auto-terapia. Rifletti sul rapporto familiare con i tuoi genitori in un dialogo tra le immagini del passato e quelle del presente. Quanto è stato difficile lavorare con un materiale emotivo così forte?
Fare questo cortometraggio non è stato sicuramente facile, ma è stato un passo importante che ho dovuto compiere per elaborare la colpa e riconciliarmi con me stessə. È stata davvero una terapia: mi sono sottopostə a terapia per tre anni prima di girare questo cortometraggio. Il titolo è preso in prestito da quello che mi ha detto la terapeuta quando vedeva i miei occhi lacrimosi ogni volta che parlavo del senso di colpa nei confronti dei miei genitori. Nonostante ciò, ho sempre trattenuto e non volevo mostrare la tristezza di fronte a lei.
Quest’incapacità di piangere era in realtà un riflesso dell’incapacità di restituire l’amore che i miei genitori mi hanno concesso in primo luogo. Attraverso la realizzazione di questo film, ho cercato non solo di affrontare ed elaborare le molte emozioni che erano sepolte dentro di me, ma anche di mostrare tutte quelle piccole cose che non possono essere dette ad alta voce.
Il fil rouge con l’infanzia
Il tuo film inizia con alcuni filmati divertenti che ti riprendono mentre giochi con la tua famiglia, con una sorta di musica cupa in sottofondo. La tua intenzione era quella di raccontare piccoli momenti dell’infanzia come un periodo malinconico? Ci sono immagini o ricordi di quel periodo che ti hanno ispirato a fare questo film?
C’è un certo tipo di nostalgia che ho verso la mia infanzia. Crescendo in una grande e devota famiglia cristiana ricordo di essere statə “diversə”, ma sentivo anche un forte senso di appartenenza. C’era un messaggio che mio nonno ha tramandato attraverso le generazioni nella nostra famiglia che recita: “mangiare o non mangiare, ciò che conta è il raduno“. Nonostante le “differenze” che potrebbero esserci, ricordo anche molto calore e risate. Forse è per questo che tendo a romanticizzare molto quel periodo della mia vita.
Il desiderio di essere amatə: un tema ricorrente nel cinema di Tedja
Questa non è la prima volta che tratti il rapporto con i genitori. Il tuo corto realizzato nel 2021 Dear to Me è la storia di Tim, un ragazzo che nasconde i suoi veri desideri dai genitori cristiani e molto devoti. Pensi che ci sia una somiglianza tra i due film?
Sì, ci sono sicuramente somiglianze in termini di temi che sono stati discussi in entrambi i film. Oltre a essere un’opera di finzione, Dear to Me proveniva anche da un luogo molto personale: era un tentativo di trovare la pace e riconciliarmi con la mia fede in quel momento. My Therapist Said, I Am Full Of Sadness, invece, è stato più il mio modo per essere sincerə con me stessə e con la mia famiglia. Entrambi i film riflettono il desiderio di essere accettatə e amatə. Credo che questo sia un tema universale che sarà sempre presente nei miei lavori.