Il cinema che racconta il cinema. Parlare di sé stesso, dei meccanismi e dei linguaggi che formano e compongono l’universo cinematografico. Il metacinema rappresenta da sempre una narrazione affascinante e allo stesso tempo complessa di quei processi che permettono alla magia delle immagini di prendere forma e realizzarsi. C’è chi ha messo il proprio focus sulla sofferenza, chi su una crisi esistenziale, chi ha deciso di costruire l’ossatura concentrandosi su un’epoca e sui cambiamenti che ne derivano.
Parlare di cinema all’interno di un film. Riflettere la natura stessa del cinema e il suo impatto sullo spettatore. Sfide difficili, ma da cui sono nati alcuni dei titoli capaci di segnare per sempre non un genere, ma una visione e modalità di interpretare il cinema stesso.
In questo articolo vi proponiamo tre film per esplorare il cinema che mostra e parla di sé stesso.
8 ½ di Federico Fellini

Difficile. Anzi, impossibile e deleterio non inserirlo in questa mini guida. 8 ½ non è solo metacinema: è il metacinema che prende coscienza di sé e decide di non nascondersi più. Fellini mette in scena il blocco creativo, l’impotenza artistica, il caos mentale di un regista che non riesce a fare il film che tutti si aspettano da lui. E lo fa trasformando proprio quell’impossibilità nel film stesso.
Guido Anselmi è Federico Fellini, ma è anche il cinema che si guarda allo specchio e non riconosce più i propri confini. Realtà, sogno, memoria e desiderio si fondono in un flusso continuo, senza gerarchie. Il set diventa un luogo mentale prima ancora che fisico, uno spazio in cui l’autore si espone, si confessa, si smarrisce. 8 ½ parla del fare cinema mentre lo fa, mostrando le sue crepe, le sue nevrosi, la sua fragilità.
È un film che accetta il disordine come forma. E proprio in questa accettazione trova la sua potenza. Fellini invita a perdersi, a danzare insieme ai suoi fantasmi. Il finale, circolare e liberatorio, è una resa che diventa atto creativo. Il cinema come gioco, come rito collettivo, come atto necessario anche quando sembra impossibile.
Il disprezzo di Jean-Luc Godard

Il disprezzo, uscito nel 1963, nello stesso anno di 8 ½, è metacinema che si fa riflessione teorica, ma senza mai rinunciare alla dimensione emotiva. Godard costruisce un film sul cinema industriale, sul rapporto tra arte e compromesso, tra autore e produzione. Ma al centro mette una frattura intima, silenziosa, irreversibile: quella tra Paul e Camille.
Il cinema si trasforma in campo di battaglia. Fritz Lang interpreta sé stesso, il set diventa il luogo in cui convivono visioni opposte del fare cinema, e Godard osserva tutto con distacco chirurgico. Ogni inquadratura è pensata, ogni colore è significante, ogni silenzio pesa più di un dialogo. Il metacinema che scava a fondo.
Il disprezzo nasce dall’incomprensione, dall’incapacità di comunicare, dall’erosione lenta di un rapporto. Così come il cinema d’autore viene logorato dalle logiche produttive, anche l’amore si consuma sotto il peso di scelte non dette. Godard lega le due dimensioni in modo indissolubile. Parlare di cinema significa parlare di sentimenti, e viceversa.
È un film freddo solo in apparenza. Sotto la superficie controllata si nasconde una malinconia profonda, quasi rassegnata. Il disprezzo celebra il cinema interrogandolo. Lo mette in crisi, ne espone i limiti. E proprio per questo resta uno dei ritratti più lucidi e dolorosi del cinema che riflette su sé stesso.
Babylon di Damien Chazelle

In mezzo, anzi, alla fine, di questa mini guida sulla Settima Arte, facciamo un salto di quasi 60 anni per arrivare a mettere nero su bianco un tracciato su Babylon. Film del 2022 diretto da Damien Chazelle, un trattato del suo modo di fare cinema.
Leitmotiv di una velocità e frenesia di narrazione perfettamente coerente con il messaggio di fondo che il regista statunitense vuole trasmettere. D’altronde, già il titolo gioca un ruolo di anticipo: indicando l’eccesso, estremizzando la Los Angeles degli anni ’20 e tutte le dinamiche tra ascese e declini nella creazione di Hollywood. Indagare la vita reale rapportandola alla vita lavorativa, creando un cortocircuito tra l’essere e il fingere. Chazelle torna a trattare un tema a lui caro: quello dell’ossessione. Lo estrae, lo analizza, lo seziona dettagliatamente in Whiplash. E con Babylon arriva a toccare una quinta essenza. Non c’è solo ossessione ma desiderio, brama, lotta e annientamento interno.
È come tenere un piede sull’acceleratore. Poche pause e ritmo insistente. Al finale ci arrivi stanco, forse anche con qualche difficoltà. Ma non esiteresti un attimo a ricominciare. È un po’ la morale di tutto quello che hai appena guardato.
Il connubio tra storia, cinema e film funziona. E poi c’è la colonna sonora: da urlo. Una jam session che dialoga costantemente con le immagini, i suoni diventano parte integrante della storia. Ti perdi nell’euforia composta e diretta da Justin Hurwitz, fluttui insieme alle note che prendono forma e ti divorano, senza avvertirti e senza darti il tempo di ambientarti. È un’amalgama cristallina che funziona, convince ma soprattutto che è fondamentale per l’ecosistema del film.