Speak No Evil è un thriller psicologico che si inserisce nel filone dell’horror sociale nordico, genere in cui il terrore non deriva da elementi sovrannaturali o gore esplicito, ma dall’implosione delle norme di convivenza. Christian Tafdrup, al suo terzo lungometraggio da regista, dimostra una maturità stilistica rara: la sua mano è invisibile, quasi documentaristica, ma ogni inquadratura è calcolata per generare disagio somatico.
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Toni freddi tipici del cinema nordico
La fotografia di Erik Molberg Hansen privilegia toni freddi e desaturati anche nelle scene toscane iniziali, creando un contrasto tra l’apparente calore vacanziero e la freddezza relazionale che seguirà. Le inquadrature sono prevalentemente fisse o a carrello lentissimo, quasi a riprodurre l’immobilità psicologica dei protagonisti. Il suono è un personaggio: il vento nei campi, il cigolio di una porta, il silenzio dopo una battuta fuori luogo. Sune Kølster compone una partitura minimale – un drone basso che pulsa come un battito irregolare – che non sottolinea, ma infetta l’atmosfera.
Tafdrup cita apertamente Haneke e Östlund, ma il suo approccio è più crudele nella semplicità: non serve un metal detector per trovare il male, basta un invito a cena.

Una recitazione perfetta
Fedja van Huêt (Patrick) è il fulcro: il suo sorriso è un’arma. Alterna bonarietà olandese e aggressività passiva con una naturalezza che rende ogni gesto ambiguo. Morten Burian e Sidsel Siem Koch incarnano la borghesia danese repressa: lui è l’uomo che vuole piacere, lei la donna che reprime l’istinto materno per non “esagerare”. La loro chimica è fatta di sguardi evitati, di “va bene” detti tra i denti. I bambini (Liva Forsberg e Marius Damslev) sono usati con spietatezza controllata: non parlano quasi mai, ma i loro corpi diventano specchi del disagio adulto.

La cortesia come forza di violenza mischiata alla satira di classe
Il film è una critica feroce alla cortesia come forma di violenza. In Danimarca il Janteloven insegna a non distinguersi, a non creare conflitti. Tafdrup porta questa regola all’estremo: il silenzio diventa complicità attiva. Il titolo inglese è programmatico: Speak No Evil non è un invito, è un comando che i protagonisti seguono fino alle conseguenze ultime.
Un altro livello è la satira di classe: due famiglie middle-class che si studiano, si invidiano, si tollerano. Patrick è il maschio alfa che paga, che canta, che decide. Bjørn è il beta che sorride e ringrazia. Il film mostra come la gerarchia si ristabilisca anche tra “pari”.

Un crescendo di micro-traumi continuo
I primi 70 minuti sono un crescendo di micro-traumi: ogni scena aggiunge un granello di sabbia alla clessidra del disagio. Non c’è un “momento di rottura” classico: la tensione è omotetica, si riproduce a scala diversa in ogni interazione. Il passaggio all’horror fisico negli ultimi 25 minuti non è un tradimento del tono, ma la logica conclusione di un sistema che non permette vie d’uscita.

Il confronto con il remake e l’unicità dell’originale
Il remake USA del 2024 (con James McAvoy) sposta l’azione in Inghilterra e aggiunge backstory ai villain. L’originale danese è più puro e spietato: non spiega, non giustifica, non concede empatia.
Speak No Evil non è un film che si “guarda”. È un film che si subisce, come una cena in cui non riesci ad alzarti da tavola. Rimane nella pelle per giorni, non per le immagini, ma per la domanda che lascia:
quante volte hai taciuto per educazione, e cosa sarebbe successo se avessi parlato?
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