Tekla Taidelli, cineasta diplomata in regia alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano e Fondatrice della Tranky Film, ha presentato la sua ultima fatica cinematografica,6:06 (al cinema dal 2026 distribuito da LSPG Popcorn), alle Giornate degli Autori, rassegna autonoma della Biennale di Venezia, dove ha ricevuto il Premio SIAE per il talento creativo. Noi di Taxidrivers abbiamo avuto il piacere di intervistare la regista.
Il riconoscimento che ti è stato assegnato è un premio al tuo film, ma anche alla tua carriera, costituita da opere cinematografiche nate in un’ottica sociale.
Faccio cinema sociale da 20 anni, un cinema scomodo, fuori dagli schemi e ovviamente molto difficile da produrre, spesso impossibile. È un cinema che prende anima e corpo, cuore e fuoco, si impossessa della vita di chi lo fa e di chi lo accompagna, dei veri partigiani. Per quanto riguarda 6:06 mi preme molto ringraziare Tommaso Lusena De Sarmiento, direttore della fotografia e produttore ed Edoardo Moghetti, aiuto regista.
Con loro si è creata una vera famiglia, perché quando fai cinema indipendente si vengono a formare dei rapporti di sangue. Per cui il premio che mi è stato assegnato a Venezia è un premio collettivo, che riconosce un’operazione politica, costruita con sofferenza e coraggio, sostenuta da un budget risicato. Nonostante tutto, il risultato è stato di alto profilo.
“Se avrai culo farai solo tre film.”
Inoltre, il premio è giunto inaspettatamente, dandomi la forza di lottare, realizzare i miei sogni e continuare a fare cinema. Il riconoscimento da parte della SIAE è il coronamento a tutti i miei sforzi e mi permette di guardare ai momenti di sconforto in maniera diversa.
Nel corso della mia carriera, infatti, non sono mancati periodi in cui avevo intenzione di lasciare la regia. Con Fuori vena entrai nella lista dei cosiddetti registi maledetti, così disse Claudio Caligari, che aggiunse: “se avrai culo farai solo tre film”. E come avvenne per il suo Amore tossico, anche per Fuori vena sono morti tutti. Mi disamorai e, dopo lo sforzo titanico per realizzare il film decisi di non fare mai più la regista.
Dunque, ho dato anima e corpo alla mia Scuola di Street Cinema, dove ho cercato di trasmettere il mio metodo, dando voce agli invisibili: immigrati, detenuti, homeless… sono questi i protagonisti di adattamenti di testi famosi che riprendono vita con uno stile che ho definito neorealismo underground. In questo modo ho creato tanti piccoli me.
Il cinema e la strada
Come nasce l’idea di 6:06?
Nel momento in cui, come dicevo, non volevo più avere a che fare con la regia cinematografica, da Milano sono arrivata allo Spazio Fontanella di Roma, dove Jacopo Pica (ilmatic Film Group) mi ha spronata a tornare dietro la macchina da presa. Allora è nato un bando, Il cinema e la strada, per i miei studenti. Questi potevano partecipare con un soggetto sul tema della strada, il vincitore avrebbe dovuto condividere con me la regia, ma io essendo una leader non avrei mai fatto una co – regia.
Pochi minuti prima della scadenza del bando arriva una paginetta, poche righe scritte da Leonardo Loberto, era il soggetto di 6:06. Ho capito immediatamente che era la storia giusta, rappresentava al meglio le generazioni post – covid, disilluse e incazzate, da qui è partito tutto.
All’inizio era un mediometraggio in bianco e nero, con il protagonista intrappolato in un loop, poi faccio un viaggio in Portogallo e inizio a scrivere la sceneggiatura di un altro film che, a differenza di 6:06, doveva essere tutto a colori. Successivamente, anche grazie al suggerimento di alcuni amici, le due cose si sono unite, così accanto alla me in bianco e nero, che fa riferimento a un periodo preciso della mia vita, non propriamente happy, ma decisamente hardcore, c’è la me a colori del presente, così il film alterna il bianco e nero dell’inizio, con il colore nella seconda parte.
Il cast di 6:06
La sinossi del soggetto iniziale così si è estesa e con essa i due protagonisti. Jo – Jo, inizialmente, era una surfista tra i trenta e i quarant’anni, poi Davide Valle, che ha avuto il doppio ruolo di interprete e co – sceneggiatore, mi ha convinto che una ventenne, estranea alle droghe era molto più convincente. In questo modo i due protagonisti del film sono giunti a rappresentare entrambi me stessa: Leo è la parte maledetta e Jo – Jo è la parte sana.
Risolto il punto della costruzione dei personaggi, ora toccava scegliere il cast. Se per il ruolo di Leo, Davide Valle immediatamente è entrato nel personaggio, cucendosi addosso il ruolo, rimaneva da scegliere un’attrice per la parte di Jo – Jo. Ci sono voluti diversi casting e poi finalmente è arrivata George Li che fa un provino straordinario ed entra a far parte della squadra. Con lei per la prima volta ho diretto un’attrice di professione, che doveva interpretare un personaggio a lei estraneo e ho cercato di cucirle addosso una parte di me, per entrare nel ruolo non doveva fare altro che imitarmi e così ha fatto.
Gli altri componenti del cast, invece, sono tutti presi per la strada, giusto?
Io dico sempre che c’è l’università della vita e quella della strada, quella della vita te la fai laureandoti con la corona d’alloro, quella della strada la fai solo per strada. Arrivata a Civitavecchia, dove è stato girato parte del film, mi sono inoltrata nella suburra, nelle case popolari e lì ho scritturato chi volevo e il ruoli che fanno nel film corrispondono a ciò che fanno nella realtà.
In ogni modo, io parlo la lingua di strada, nonostante ora mi sia un po’ ripulita, ma resto punk nella testa e non nella cresta. Ho l’anima punk da sempre, per cui per me è stato davvero naturale muovermi in questo contesto.
Tekla Taidelli: voglio fottere il sistema da dentro
Nel film hai usato tutto il girato?
Assolutamente no, la prima versione di 6:06, montato da me e Matteo Faccenda, durava quasi due ore, una specie di Ben Hur dei fattoni, con lunghi piani sequenza. Era una versione troppo autoriale che, probabilmente riusciva anche a commuovere, ma decisamente troppo noiosa. Poi entra in gioco Fabio Nunziata, un montatore che ha lavorato in diversi film di Abel Ferrara, che realizza un trailer di 6:06. Il risultato era molto potente e commovente, allo stesso tempo, però, vedevo che il mio messaggio era stato, almeno in parte, modificato.
A questo punto mi sono ritrovata dinnanzi a un bivio: fare un film sulla falsariga di Fuori vena, un’opera totalmente underground, ma che avrebbe avuto, volente o nolente, una diffusione limitata; oppure realizzare un lungometraggio più fluido, che conservasse il valore universale della vicenda, ma allo stesso tempo, capace di attirare un pubblico più ampio. Ho deciso di percorre la seconda strada.
Allora, non mi restava che affidare tutto il girato a Fabio Nunziata, che ha riscritto il film, basandosi sulla mia storia, ma dandole un diverso ordine, conservando la sofferenza e la sensibilità che avevo riversato nel girato, perché appaio ruvida, ma sostanzialmente sono una bambina con le trecce e nel film c’è tutto il mio amore. È stata una scelta di strategia, perché io voglio fottere il sistema da dentro. Nei 90 minuti di di 6:06 c’è la mia vita riassunta in un battito di ciglia.
Tekla Taidelli e Claudio Caligari
L’hai nominato tu prima, quanto c’è di Claudio Caligari in 6:06?
In 6:06, forse poco, anzi nulla, ma in Fuori vena, invece, ce n’è tanto, anche se ho conosciuto Claudio dopo aver girato il film e ho visto il suo Amore tossico dopo. All’epoca ero più cinofila che cinefila, probabilmente tutt’oggi lo sono ancora.
Un giorno mi suona il citofono di casa: “Sono Claudio Calligari…” e io di tutta risposta: “ si certo e io sono la Wertmuller!”.
Poi mi ha offerto da bere e mi ha confessato che disse al suo sceneggiatore, Guido Blumer: “Chi cazzo ha avuto il coraggio di fare un film come Amore Tossico?!”
Sicuramente ci accomuna il fatto di aver avuto problemi giudiziari per i nostri film. Io per Fuori vena ho avuto una multa di cinque mila euro, lui è finito in carcere per spaccio e apologia alle droghe per le riprese di Amore tossico. Nel mio cinema c’è la sua stessa voglia di fottersi di tutto e di mostrare e dire quello che si desidera.
Il loop della droga
Il tornare e il ritornare sulle droghe in 6:06è più un riferimento alla quotidianità, sempre uguale, della vita in provincia: tutti dicono le stesse cose, tutti fanno le stesse cose. Un loop, come ne Il giorno della marmotta, uno schema che poi è stato imitato in tanti altri film, ma mai nel mondo delle droghe. Se ci pensiamo bene, però, la droga è proprio questo, un ripetersi all’infinito, simile a un film horror. È una trappola fisica, ma soprattutto mentale, infatti sono imprigionati nel nero. Ogni volta che Leo telefona Igor, questi appare in una scatola nera, è chiuso in una gabbia.
Nel film, poi, ho ritrovato una buona dose di simbolismo che usa spesso e volentieri l’elemento dell’acqua, è una giusta interpretazione?
Più che simbolismo è autobiografia. Come quando Leo viene investito, crede di tuffarsi nelle acque del porto di Civitavecchia e invece si butta nel traffico di una strada per essere preso in pieno da un camion. È la stessa cosa accaduta me, mi sono tuffata su un’autostrada credendo di tuffarmi in acqua e un autobus mi ha preso in pieno e lì ho deciso di fare cinema.
Alla pari di Leo, esco senza un graffio da questo incidente. Un miracolo? Probabilmente è stato mio padre, morto suicida, un altro elemento autobiografico che ho inserito nel film, che è sceso dal cielo e mi ha salvata.
La regia e la fotografia di 6:06
Insomma se Fuori vena è nato dall’esigenza, direi disperata, di raccontare la storia di Alessandro, mio fidanzato, morto di epatite a causa dell’uso di eroina, 6:06 è stato realizzato per mostrare l’intera mia vita e tante parentesi che ho vissuto, suddividendole tra i due protagonisti.
Due protagonisti, ma anche due film in un uno, il primo sulla droga e il secondo sulla vita, l’uno in bianco e nero e l’altro a colori. Ma anche due viaggi, quello nella droga, che può ripetersi all’infinito oppure può sfociare nel colore della vita, il secondo.
Questa spartizione tra parte maledetta e parte sana, tra droga e vita, la rendi anche visivamente, con la regia e la fotografia?
Sì certo, nella prima parte faccio spesso ricorso alle soggettive rallentate, altre volte uso la scia, proprio per rimandare all’uso della droga. In questo mi ha aiutato molto Tommaso Lusena De Sarmiento. Io dico sempre che il cuore del regista è diviso in due parti, il ventricolo sinistro è il direttore della fotografia, che vede con il mio occhio e ventricolo destro il montatore, che sente con il tuo cuore. Tommaso, che viene dalla scuola di Franco Maresco ha questa capacità di capire immediatamente ciò che vedo io ed è riuscito a dare materia e sostanza a tutto quello che avevo in testa.