In concorso all’Ortigia film festival 2025, Quem Se Move di Stephanie Ricci si rivela un cortometraggio che, con una sincerità disarmante, fotografa uno spaccato di vita giovanile tragicamente sospeso tra due continenti. L’opera si pone come un ritratto intimo e vivido di un’anima errante alla disperata ricerca di un senso di appartenenza, riuscendo a trasformare una storia personale in una profonda riflessione universale sulle difficoltà dell’immigrazione e sul sentirsi perennemente fuori posto.
La città che non è più casa
La protagonista, René (Olivia Torres), è una giovane immigrata brasiliana che in una notte a Lisbona viene posta di fronte a una scelta definitiva. In una città che un tempo le sembrava una terra di promesse, ma che ora le è diventata estranea, deve decidere se continuare a vivere illegalmente in una condizione di precarietà e ansia o tornare nel suo paese d’origine. Questa notte si trasforma in un vero e proprio viaggio introspettivo, un’odissea urbana che la porta ad attraversare feste queer, fare incontri fugaci, vivere amori che sembrano impossibili e subire rifiuti che la costringono a confrontarsi con il suo abisso interiore. Ogni interazione, ogni volto, ogni strada percorsa diventa una prova, un momento di confronto con la solitudine profonda, il senso di sradicamento e il vuoto lasciato dalla mancanza di un posto da chiamare casa.
Lisbona, in questo contesto, non è semplicemente uno sfondo passivo, ma un personaggio a tutti gli effetti, che riflette e amplifica lo stato d’animo di René. L’energia dei suoi quartieri, le luci al neon della notte e i volti della sua popolazione sono lo specchio di una lotta interiore che si manifesta in ogni passo che la ragazza compie. La città si fa labirinto emotivo, un luogo di speranza e disillusione allo stesso tempo, che la spinge a un bivio esistenziale da cui non può più fuggire.

Lo stile intimo e la potenza visiva
Lo stile di Stephanie Ricci possiede una potenza narrativa e stilistica degna di nota. La regia si muove con fluidità tra sequenze che sembrano rubate alla vita di tutti i giorni, con una telecamera che si fa discreta testimone di momenti di intimità e vulnerabilità. La fotografia del cortometraggio è curata e visivamente suggestiva, contribuendo a creare un’atmosfera che riflette l’intimità e il tormento della protagonista. I dialoghi sono ridotti all’essenziale, lasciando che siano gli sguardi, i silenzi e l’atmosfera a comunicare il peso del dilemma di René. Lo spettatore viene subito proiettato nella storia, sentendo sulla propria pelle la precarietà e l’intensità delle sue emozioni.
Questo approccio dona all’opera un’autenticità rara che cattura l’essenza dell’esperienza migrante. La scelta di seguire da vicino la protagonista, cogliendo ogni sfumatura del suo volto e ogni piccolo gesto, crea un legame empatico immediato e profondo. L’uso sapiente della luce e dell’oscurità non è solo un elemento stilistico, ma un potente mezzo narrativo. L’ombra richiama metaforicamente l’abisso interiore della protagonista, un luogo di insicurezza e paura. Al contrario, sporadiche fonti di luce, come i neon di un locale o un lampione in una strada vuota, suggeriscono una possibile speranza, una via d’uscita dal labirinto della sua esistenza, seppur complessa da raggiungere. La performance di Olivia Torres è maestosa e indelebile, in grado di rendere palpabile quella fragilità e insicurezzache definiscono il percorso di una persona divisa tra due mondi.
È un cortometraggio toccante e potente, che in pochi minuti riesce a esplorare temi universali come l’identità, l’appartenenza e la solitudine, lasciando lo spettatore con un’emozione profonda e duratura. Non è solo un film sull’immigrazione, ma un’opera che parla della ricerca di un posto nel mondo e di cosa significa sentirsi davvero a casa.