“Si volse a guardare la sua Euridice e perdette tutte le sue fatiche, fu rotto il patto del crudele tiranno e tre volte si udì un fragore per gli stagni d’Averno”, scrive Virgilio nelle Georgiche. È da questo gesto, fragile e eterno, che parte la rilettura visionaria di Virgilio Villoresi nel suo primo lungometraggio Orfeo, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e in concorso alla 17ª edizione dell’Ortigia Film Festival. Un’opera che rielabora il mito greco in chiave contemporanea, sperimentale, trovando il suo centro nel cinema come espressione del sogno.
Orfeo Dal mito a Buzzati: un universo poetico e visionario

Ispirato liberamente a Poema a fumetti di Dino Buzzati, Orfeo racconta la storia di un pianista solitario, interpretato da Luca Vergoni, e visionario che si innamora di Eura (Giulia Maenza), figura enigmatica che cela un segreto. Quando lei scompare, Orfeo la segue attraverso una porta misteriosa, varcando una soglia che lo condurrà in un aldilà popolato da creature fantastiche, ricordi perduti e illusioni ottiche. Lì, tra le varie figure, Orfeo tenterà un impossibile ritorno con l’amata.
Villoresi, cineasta d’origine toscana, attinge all’immaginario del fumetto buzzatiano per costruire un universo cinematografico libero e personale, sospeso tra favola, sogno e incubo dove gli interpreti, doppiati anche nella versione italiana, sono ridotti a pura presenza scenica, contribuendo così a creare un’atmosfera sospesa e straniante, dove corpo e voce si separano intenzionalmente.
Estetica artigianale e tecniche d’altri tempi

Girato interamente in pellicola 16mm, Orfeo è un film che si nutre di materia. Villoresi ricrea un’estetica atemporale, retrò ma indefinita, capace di evocare un immaginario lontano eppure familiare. Le scenografie costruite a mano, i fondali retroilluminati su PVC, le illusioni ottiche realizzate con un vetro inclinato a 45° davanti all’obiettivo — come nel cinema delle origini — restituiscono allo spettatore un’esperienza immersiva e profondamente sensoriale.
L’uso della stop motion, realizzata con una cinepresa analogica degli anni ’70, aggiunge un ulteriore livello d’incanto. Le animatrici Anna Ciammitti e Stefania Demicheli danno vita a creature ispirate al fumetto di Buzzati con una cura che restituisce un effetto magico e tangibile. È la magia del gesto manuale, dell’errore umano, del tempo che si sente.
Omaggio al cinema che fu
Nei due anni di riprese le influenze sono state molteplici, ma tutte perfettamente in armonia tra loro. Villoresi omaggia Jean Cocteau e il suo Le sang d’un poète; rende omaggio a Mario Bava, maestro dell’horror italiano, nell’uso espressivo della luce e nei colori accesi; dialoga con il cinema d’animazione dell’Est Europa (da Svankmajer a Lenica), ma anche con Hitchcock, Scorsese, Peckinpah, e perfino con Texas Carnival.
Una sequenza in particolare — un ballo tra presente e passato — si basa su found footage di vecchi filmati Super8 della madre del regista, una ballerina, ricostruiti in studio e fusi in un’unica coreografia fluida. È un atto d’amore personale e cinematografico insieme, che racchiude l’anima più intima dell’opera.
Il cinema come autoritratto
Orfeo è molto più di un film d’autore: è un autoritratto in forma cinematografica. Villoresi mette in scena il proprio immaginario, i propri oggetti personali, le tecniche apprese nel tempo, le illusioni ottiche amate fin da bambino. Tutto — dai tempi di lavorazione alla direzione artistica — è gestito autonomamente, fuori dalle logiche produttive canoniche. Così afferma Villoresi:
“Orfeo è stato costruito intorno alla mia visione (…) Non volevo spiegare, ma evocare; non raccontare in modo lineare, ma aprire spazi di immaginazione”
Mito, sogno e libertà creativa

Il film si interroga sul rapporto tra mito e cinema, tra sogno e rappresentazione. È un viaggio nell’aldilà, ma anche nella memoria, nell’amore perduto, nella nostalgia e nella potenza del ricordo, come suggerito da una sceneggiatura discontinua che avanza per associazioni di immagini, proprio come in una dimensione onirica. Un’opera che non teme di uscire dai binari, che invita a lasciarsi andare all’immaginazione senza cercare spiegazioni.
Nonostante possa apparire complesso per un pubblico abituato a narrazioni più convenzionali, Orfeo rappresenta un unicum nel cinema italiano, un atto di coraggio in un’epoca dominata da prodotti seriali e linguaggi industriali, è un atto radicale di libertà creativa.