La chiave dello scandalo, proprio come un macguffin hitchcockiano che ci svia dal vero nocciolo della questione, è rappresentata dai jeans e da una delle attrici più in ascesa del panorama hollywoodiano: Sydney Sweeney. L’American Eagle, lanciando la nota campagna ritenuta da una parte dell’opinione pubblica americana come “scandalosa”, ha creato due componenti pubblicitarie perni del capitalismo consumistico: la polemica del prodotto e la conseguente commercializzazione del prodotto stesso.
La colpa della Sweeney è la sua bellezza, troppo perfetta e sessualizzata, in controtendenza con una ricerca che negli ultimi anni l’industria audiovisiva, creativa o pubblicitaria, ha inseguito: immagini di corpi accettati, imperfetti, improntati al body positive, e a una normalità che si oppone alla bionda perfezione dell’attrice di Euphoria.
Inoltre, all’interno della polemica dell’oggettivazione si inserisce, un po’ retoricamente, quella inerente a uno pseudo razzismo; l’azienda ideatrice della discussa campagna pubblicitaria viene accusata di suprematismo nel gioco di parole che fa dire a Sweeney, una volontaria distorsione terminologica tra jeans e genes (geni). Si potrebbe obbiettare che l’opinione pubblica è rimasta in silenzio quando la stessa pubblicità ha avuto per protagonista la pop-star Beyoncè. Una dimenticanza che in questa storia di immagini femminili ci svia dal vero nodo estetico: l’uso che si può fare o meno del corpo.
Il cortocircuito Sweeney
L’American Eagle, sapendo bene ciò che ne sarebbe derivato, ha attivato una controversia che ha strizzato l’occhio alla situazione politica americana e alla guerra di identità e di fazioni in cui la donna è il centro polemico con la sua immagine. Perché la colpa di Sydney Sweeney, se di colpevolezza si tratta, è proprio quella di non essere un’attivista femminista, non schierata, applicando però le basi del femminismo: la donna fa del suo corpo quello che vuole.

In questo American Eagle e la Sweeney, consapevoli delle polemiche che avrebbero innescato, sono stati in grado di riportarci allo scontro tra immagini e all’uso distorto e poi emancipato che dell’estetica femminile è stato fatto, nei decenni, nei contenuti audiovisivi. Che si tratti di uno spot pubblicitario, una serie tv o un film, la presenza di una donna è sempre un argomento di discussione circa il suo aspetto. Alla rappresentazione femminile nell’audiovisivo ci si aspetta forse troppo: corpi di accompagnamento, corpi che protestano, corpi che rivendicano il proprio posto nell’industria.
Oggi la questione è proprio relativa a come la società ci costringe a vederci. Immagini di donne scoperte, troppo coperte, troppo scoperte, che sbagliano se non rivendicano il proprio femminismo come l’attrice di Euphoria, macchiata del grave errore di essere stata consapevolmente pagata per usare il proprio corpo, avendone completamente il controllo. Ed è proprio per il valore spropositato che abbiamo dato nel tempo alle immagini se Sydney Sweeney, per colpa dei suoi jeans, non riesce a essere identificata dal pubblico che la guarda come un corpo volontario ma solo come uno strumento nelle mani di un piano politico più grande e forse inesistente.
Il Male Gaze nel cinema hollywoodiano – Sydney Sweeney
Nel saggio del 1975 di Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, viene introdotta l’idea, confermata dall’epoca della golden age del cinema americano, che Hollywood per lunghi tratti sia stata dominata dal Male Gaze, lo sguardo maschile sulla figura e sul corpo femminile; la donna di quest’epoca nel cinema veniva rappresentata come oggetto del desiderio visivo per lo spettatore maschile.
E la macchina da presa non era altro che una soggettiva patriarcale con cui l’eroe del cinema classico guardava la donna: dama di compagnia, figura da salvare, guardata e “spogliata” con lo sguardo dai vari John Wayne e Cary Grant, superuomini cinematografici che rafforzavano la dinamica di potere a proprio esclusivo controllo e vantaggio.

Nella filmografia americana che include i decenni ’30, ’40, e ’50, le donne sono spesso quei personaggi laterali, espedienti romantici che consentono all’eroe di proseguire emotivamente il proprio viaggio, nutrendo i propri istinti ormonali e virili. Donne che in questa fase sono richiuse in funzionali e semplicistici stereotipi di muse, donne-angelo, vittime passive, femmes fatales.
Lo sguardo maschile sulla donna
Modelli basic che amplificano l’oggettivizzazione della figure femminile, rafforzando e consolidando il modello patriarcale. L’emblema del Male Gaze è Marilyn Monroe, uno degli esempi più noti di icona sessuale e sensuale costruita per il grande schermo. Nei due decenni ’50 e ’60 l’icona americana costruisce la sua fortuna ma anche il suo stereotipo con opere come Gli uomini preferiscono le bionde, Quando la moglie va in vacanza, e A qualcuno piace caldo. La sua caratterizzazione si addentra in personaggi biondi e svampiti, inquadrata dai registi di Hollywood (in primis Howard Hawks) in modo eccessivamente sessualizzato, insistendo con particolari sul suo corpo.
Anche i suoi costumi e le sue movenze sono accentuate per renderla oggetto dello sguardo maschile. Ruoli che Marilyn Monroe interpretava in maniera ingenua e seduttiva, rappresentata molto spesso con un’intelligenza frivola e spesso derisa dai suoi co-partner maschili. Il caso dei jeans viene usato da molti come pretesto per accomunare Sydney Sweeney all’oggettivizzazione della figura di Monroe.

Lo sfruttamento dell’immagine di Marilyn Monroe
Ma Marilyn era vittima dell’industria, anche oggetto di violenza fisica e psicologica, una sex symbol inconsapevole del proprio ruolo reale nel cinema, desiderosa di fama e non di accettazione femminile. Sweeney invece è dentro il conflitto tra immagini di un corpo di cui essa stessa ha le redini e l’assoluto controllo, decidendo consapevolmente di usarlo come mezzo di discussione e promozione del suo stesso brand.
Monroe, ovviamente, è il simbolo di una tendenza che ha fatto scuola e rispetto alla quale si possono trovare esempi ancora oggi accettati; l’iconica Jessica Rabbit in Chi ha incastrato Roger Rabbit incarna l’estrema sessualizzazione del corpo femminile, un chiaro sogno erotico maschile sottolineato da una sua altrettanto iconica battuta: “Non sono cattiva, è che mi disegnano così”.
Il Male Gaze trova terreno fertile per lungo periodo anche in uno dei franchise più longevi della storia del cinema, lo 007 di James Bond. Accanto all’agente segreto troviamo quasi sempre una stessa figura femminile; che sia Ursula Andress o Halle Barry, la scena del bikini e l’atteggiamento da ingannatrice/femme fatale è sempre stato appannaggio di un personaggio, quello dell’agente segreto inglese, per il quale l’immagine femminile era chiara e costruita: un sogno e un incubo erotico da cui James Bond faceva fatica a sottrarsi.

E forse l’ultima grande diva sessualizzata del cinema del nuovo millennio può essere identificata in Scarlett Johansson: musa di Woody Allen per un certo periodo e la Vedova Nera degli Avengers, che ha offuscato il suo talento per un’immagine erotica del proprio corpo; dentro il Male Gaze per buona parte della sua carriera, prototipo replicato da altre sue emulazioni tra le quali spicca la figura di Margot Robbie.
Dall’oggetto al soggetto femminile – Sydney Sweeney
Come inquadrare quindi Sydney Sweeney nell’ottica della sua pur breve filmografia e rispetto all’affare jeans? Non essendo una Marilyn, il suo percorso sembrerebbe più in linea con quello di Johansson o di Robbie, alternando Male Gaze a figure femminili più emancipate. Se infatti lo sguardo maschile su di lei è ben evidente nella serie Euphoria e in commedie come Tutti tranne te, Sweeney ha dimostrato una certa rappresentazione di autorializzazione femminile; in Americana, il thriller di Tony Tost, è una cameriera action del New Mexico, in Reality interpreta la veterana dell’aeronautica americana che ha fatto trapelare documenti dell’intelligence sulle interferenze russe sulle presidenziali del 2016.

Nell’horror Immaculate è una suora sottoposta ad esperimenti genetici in un convento italiano, e in Eden di Ron Howard è una donna incinta che avrà un’evoluzione femminista abbastanza rilevante nel corso del film. Il profilo di Sydney Sweeney, quindi, è pienamente dentro un’iconografia femminile che già dagli anni ’60 con Monica Vitti ne L’Eclisse di Antonioni e l’eroina sci-fi Sigourney Weaver di Alien di fine ’70, inizia a raccontare un nuovo cinema di donne emancipate, forti.
Donne più autonome che, cercando in tutti i modi di decostruire il Male Gaze, passano dall’essere l’oggetto della storia a un soggetto che rivendica con forza la propria rappresentazione e rilevanza. Sweeney del resto dimostra una tendenza propria della nuova attrice contemporanea abile nell’unire prodotti indirizzati allo sguardo maschile, e altri di rivendicazione della figura femminile sul grande e piccolo schermo.
I jeans di Sydney Sweeney mettono in luce il contrasto tra l’estetica del corpo femminile e la rappresentazione della donna nel contesto audiovisivo. L’attrice americana, come ogni diva e anti-diva della sua generazione, usa e sfrutta il principale aspetto del meccanismo hollywoodiano: essere un corpo consapevole.