È d’uopo che tutto abbia inizio dalla correzione di un’inesattezza la cui “esistenza” spiega il giusto e meritatissimo successo di un Italiano invisibile in patria, di professione attore, coinvolto spesso e volentieri nel campo incurabile della cecità altrui.
Circa due settimane fa, a pagina 36 del settimanale “La lettura” (supplemento del Corriere della Sera) si evidenziava una felice prassi teatrale della drammaturgia e della scena anglosassone, ovvero la trattazione di argomenti matematici con tanto di dimostrazioni, non inseriti nella cornice di dibattiti scientifici, bensì come fulcro vero e proprio delle pièces. Con una dimostrazione infatti termina lo spettacolo teatrale The Curious Incident of the Dog in the Night-Time che mantiene il titolo del libro da cui è stato tratto scritto da Mark Haddon (in Italia, il volume pubblicato da Einaudi, è noto come Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte). Si è nel 2003. Nove anni dopo (se la numerologia conta ancora qualcosa devono esser stati propizi i multipli di 3!) il palcoscenico del National Theatre londinese ne accoglie l’adattamento di Simon Stephens, affidandone la regia teatrale a Marianne Elliot. Da allora, fino al mese scorso, il personaggio protagonista Christopher Jhon Francis Boone, autistico e affetto dalla sindrome di Asperger, continua ad attirare pubblico. Senza citare interamente l’articolo, a firma di Michele Emmer, ritengo importante menzionare almeno altri due testi teatrali passati poi ad una vita “spettacolare” testimoni delle affinità elettive tra la matematica e lo “stage” nel teatro in lingua inglese: Arcadia (commedia del 1993) di Tom Stoppard, sceneggiatore premiato con l’Oscar per il film Shakespeare in love, e Proof (2000) di David Auburn, divenuto poi un film diretto da John Madden e interpretato da Anthony Hopkins.
E nello statico Bel Paese? Il bilancio si riduce a raschiare il fondo del barile, ovvero alla citazione di Infinities di Luca Ronconi, lavoro teatrale andato in scena nella stagione 2001-2002, al Piccolo Teatro, ritenuto una grande eccezione nel triste panorama nostrano che, oltre a disinteressarsi di tutto, figurarsi della matematica, non paventa nemmeno l’ipotesi di mettere in scena pièces inglesi gloriose per storia, (r)esistenza e incassi.
Mi permetto, a questo punto, di completare il lavoro di Emmer recensendo Anelante di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, spettacolo teatrale andato in scena fino al 15 gennaio di quest’anno, presso il Teatro Vascello di Roma che, da molto tempo ormai, vede la lungimirante direttrice artistica Manuela Kustermann, accogliere gli “Habitat” progettati, costruiti e vissuti da due artisti rei di fare un “Teatro involontario” e un “Cinema su Misura”.
Quale migliore legame con la matematica può esser consolidato se non denominando una trilogia involontaria (la definizione è mia con il massimo augurio di prosperità e continuità): Civiltà numeriche composta, per l’occasione di un rientro romano, dagli ultimi tre spettacoli partoriti dal binomio Rezza- Mastrella ossia 7-14-21-28, Fratto_X e infine Anelante?
Dati trent’anni di ininterrotta attività teatrale iniziata “facendo ritmo”, come volevasi dimostrare, si ritorna inevitabilmente da dove si è venuti, alle origini, che nel caso di Rezza (drammaturgo e attore) e Mastrella (scenografa) vedono come imprescindibile il riso diabolico e l’impiego di ogni mezzo di comunicazione.
…E nel caso della Storia della Civiltà Umana, vedono come imprescindibile il dato numerico per il conto, il calcolo, il mercato, le banche, le speculazioni, la scienza ecc…
Anelante si apre con un’ouverture originale. Dopo un urlo cavernoso, quasi di nascita primordiale, si ode la suoneria di un I-Phone (apertura di default) sulla cui “melodia” saltella, a ritmo, Rezza. Sembra una lancetta impazzita che subito suscita, nel totale vuoto di comprensione del significato del movimento compiuto, la consueta e disarmante simpatia. Dall’inizio si stabilisce, come già negli altri suoi spettacoli che ho avuto modo di vedere e assorbire, un rapporto di dominio in cui ogni membro del pubblico accetta di buon grado, senza offesa apparente, il totale vilipendio della propria persona, scoprendosi “anelante” a qualcosa tanto quanto il protagonista.
Si legge infatti nelle note di regia firmate da Flavia Mastrella “[…]L’Anelante vive confinato tra le muraglie, chiuso nel recinto, senza sporgersi, pretende di conoscere il mondo, lo fa per non accorgersi del vuoto che gli riempie la vita. Disposto a tutto, per sostenere la gerarchia di sempre, usa i sistemi virtuali di cui si è impadronito”.
Prima di impiegare scenicamente gli Habitat posti sul fondo, un matematico vive il palcoscenico, nel senso di pavimento o infinita lavagna su cui scrivere le sue formule e le sue teorie. Dichiara di esser un professore e non un dissociato. Anche un matematico che insegna è un membro della società. Pendiamo dunque dalle sue labbra mentre definisce un raggio vettore, spiega Copernico, include Newton senza dimenticare Pitagora, padre della matematica, passa per Keplero, esplora la fisica quantistica, i problemi di omosessualità di due rette parallele che non si incontreranno all’infinito (area deprivata dal pregiudizio) fino a quando spara numeri a caso: 124,3, 31, 32 e così via, sostenendo correttamente che se “preso in tempo, tutto era curabile”.
Quando il risultato è un numero periodico, può mandarsi da solo a quel paese.
La malattia affligge anche la “Provincia” e sarebbe stata sanabile (la malattia o la Provincia?) se non l’avessero rovinata dal ’68 in poi, pertanto tragicamente quest’istituzione “è quello che è”, immutabile, ovvero immobile e soffocante quando prova a non abbandonare, come una madre affettuosa, ogni soggetto potenzialmente disadattato. Tuttavia i sistemi di cura del “diverso” hanno generato ulteriore allontanamento e, per colpa della maestra Nicoletta Rossi, il bambino diventato uomo con estrema difficoltà non ha mai potuto prender parte alle recite scolastiche, vivendo le nefaste conseguenze di un “errore di valutazione macroscopico”.
Vien da sé il passaggio dall’esperienza/esperimento di vita fallimentare del singolo ai tentativi abortiti di salvare il mondo convocando vertici (ben poco geometrici) con protagonisti “I Grandi della Terra” che, riunitisi in venti appunto al G20, devono via via ridurre il numero degli aderenti per scarsa ed annoiata partecipazione arrivando, dopo gli annullati G14 e G8, al G5. Tanto basta a mettere in moto il coinvolgimento degli altri attori (tre uomini e una donna) che fino a quel mondo avevano vissuto dietro i muri della scenografia, emergendo sporadicamente senza poter parlare o dialogare. Adesso invece costituiscono un unicum che si muove con mani e piedi piegando flettendo la schiena a ponte, intonando, in una bizzarra e faticosa processione, il coro “ A regola”.
È la fine: benvenuti a bordo di un aereo che deve condurre i prodi passeggeri a Londra, tecnicamente, entriamo nella versione teatrale di un qualsiasi film di Buñuel: tutti esprimono opinioni tramite la voce e il corpo di Rezza. Vi sono il comandante, il prete pedofilo e omosessuale anelanti a scegliere la miglior morte in caso di incidente. Pare convenga sempre schiantarsi contro una montagna, ma le affermazioni sottendono palesemente il vero chiodo fisso conficcato nel cervello dell’individuo del Secolo breve: Freud e l’imbroglio fortunato delle sue teorie…Ad una certa ora la gente ha sonno: ecco perché il padre della psicanalisi ha avuto più successo di altri. Poi, in scena, si continua ad affermare, discutendo dell’inconscio mentre i corpi dei performer e alcune sedie vengono disposti come in una seduta psicanalitica collettiva, che un padre c’è sempre…anche nel (V)vuoto. Saremmo tutti vittime di una gigantesca confusione mista ad umano ed irrefrenabile opportunismo e pulsioni sessuali inconfessabili. La conclusione è amara e disarmante: “Tra un telegiornale e incularsi il proprio padre non esiste una via di mezzo”. Il che non vuol dire che sia una sconfitta raccapricciante. A consolidare la non del tutto abominevole ipotesi arriva tonante la domanda: “E se ti andava male, che succedeva?”. Ne emerge paradossalmente come più scandalosa la risposta secondo cui si vive fino alla fine “alla giornata” , poiché vivere alla giornata è l’unico obiettivo vero della propria esistenza.
La missione dei partecipanti al G5 inizia a perdere le coordinate del discorso: il linguaggio parlato correttamente si incrina facendo posto al grammelot lasciato emergere da sotto i teli a strisce della scenografia richiamanti delle sdraio da mare ammutinate in verticale per assenza di sole e spiaggia. Altro che quarta dimensione. È scomparsa la terza. Anche il movimento umano azzerata la normalità del procedere quotidiano, si converte in puro ritmo e ritorna alle origini di danza orgiastica, frenetica, sessuale mista a canti potenti come quelli alti ed epici dei popoli orientali. Non tardano, similmente ad un rito religioso che si rispetti, il coinvolgimento del corpo denudato alle natiche, mediante bastonate e punizioni di ogni genere, a volte anche piacevoli e birichine quali il solletico all’ano grazie ad un ciuffo di piume colorate. Nell’esibire senza pudore alcuno le gioie immense dei coiti tra uomini (da cui le donne sono freudianamente escluse e quindi anche l’attrice in scena), proprio quelle piume che hanno assorbito e trattenuto il profumo celestiale dell’infanzia “trapassata” rappresentano quanto rimane di un incontro londinese mai avvenuto. Matematico è il postulato per cui Dio è un surrogato del culo…non a caso quando Dio lo incontra scappa!
Sciolta l’assemblea, seminato il dubbio relativo alle crude punizioni fin ad ora mostrate, a cui nessuno dei sodomizzati si ribella (“Spesso il dolore lascia spazio all’ignoranza”), l’ultima parte dello spettacolo si concentra appassionatamente sul concetto di silenzio e di emissioni sonore convocando con arguzia un organo dimenticato sempre più di frequente a teatro: l’orecchio.
Ascoltare, udire, sentire si traducono prima dell’atto di percezione spettatoriale in un’attività sempre rivoluzionaria ed estenuante: parlare, comunicare, esprimersi in qualsiasi modo.
Il protagonista della pièce è affetto da logorrea, tanto da dover rinunciare sia al pensare che lo obbligherebbe ad interrompere l’immissione nel reale del suo flusso di coscienza e sia ad ascoltare un eventuale “tu”, giacché si incorrerebbe nella stessa conseguenza. Naturalmente si tratta di un pallido tentativo: “Io zitto faccio paura, voglio dimostrare che è meglio che io parli”. Il pubblico poi ha l’opportunità davvero unica di rinvenire ancora una volta Dio nei propri orecchi. Se Bergam, aggiungo, lo aveva associato ad un ragno sul muro…che problema c’è?
Il dramma potrebbe esser l’elemento in cui proseguire la propria esistenza e ipotizzare il blocco della parola. In luogo dell’aria tentar con l’ acqua, nei fondali di mari o oceani, non nuocerebbe per varie ragioni: la parola di Dio “si fracicherebbe” miseramente e chi vuole o deve parlare lo farebbe anche al limite dell’apnea.
Voilà: casco da palombaro (come quello del disegno dell’omonima poesia di Guido Gozzano), il monologo finale vede un uomo solo al comando, mentre gli altri compagni di viaggio lo cercano con l’ausilio di piccole torce nel buio dominante degli abissi. La luce è infatti dentro: si chiarisce che la “mamma” è il “candore applicato al sistema ”mentre il “papà” semplicemente “’na merda” e scegliere chi uccidere diventa un gioco da ragazzi, che conduce ad un finale agonizzante, ma completato, prima di staccare la spina, sprecare prezioso ossigeno e infine crepare.
La madre. Senza dubbio. La morte le spetta per tutto ciò che ha vietato al figlio. Se si potesse tornare indietro, però, non si disdegnerebbe nemmeno un colpetto mortale al padre. Insomma, alla fine della fiera, matematicamente sono da toglier di mezzo entrambi. Chi rimane, solo al mondo?
Un uomo ai margini della società (teatrale) che si autoemargina troppo, inudibile, invisibile, incomprensibile, inarrivabile, non collocabile, non ascrivibile, non rieducabile.
Se poi si annovera all’attività teatrale, quella letteraria e cinematografica, la catastrofe è compiuta: in quest’ultimo caso tre film lungometraggi, una serie nutrita di corto e mediometraggi, un programma realizzato nel 2000 per Rai 3, una raccolta video del cinema di Rezza-Mastrella in bianco e nero edito da Kiwido e infine per adesso il film Milano Via Padova proiettato al Cinema Apollo e al Cinema Palazzo Occupato nel segno matematicamente incontrovertibile di una interdisciplinarietà propria dell’Uomo.
Là dove le menti spente, esplose nel luogo comune, non arrivano più, arriva Rezza, odierno Fibonacci, a dare i numeri e a farci riscoprire la sequenza aurea. Da puro genio.
Mariangela Imbrenda