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Interviews

Sex & Violence. Percorsi nel cinema estremo. Intervista a Roberto Curti e Tommaso La Selva

Gianluigi Perrone intervista per Taxi Drivers Roberto Curti e Tommaso La Selva, autori del volume Sex & Violence. Percorsi nel cinema estremo. Come è cambiata nel cinema la rappresentazione della violenza ai tempi dei video shock dell’Isis e della diffusione di massa di immagini traumatiche nell’era di internet? Un’appassionata conversazione sul concetto di ‘limite’ ed ‘estremo’. Da non perdere

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SEX & VIOLENCE. PERCORSI NEL CINEMA ESTREMO

INTERVISTA A ROBERTO CURTI E TOMMASO LA SELVA

LINDAU

Pag: 626

“La penetrazione stessa è atto intrusivo, violento,brutale.”.

La frase è presente nell’introduzione di Sex & Violence. Percorsi nel cinema estremo e identifica, a mio parere, l’approccio al contenuto degli autori, Roberto Curti e Tommaso La Selva. Lindau pubblica una terza edizione, aggiornata e riveduta.  Dalla nascita del progetto, fine anni ‘90 per prima pubblicazione del 2003, sono passati 15 anni. 15 anni di violenze, stupri, abomini, sadismi osceni filmati e digeriti. Il concetto di violenza è cambiato. Ci sono stati il 9/11, Guantanamo, Sara Tommasi, la rivoluzione di internet con conseguente sdoganamento di qualsiasi oscenità alla mercé di chiunque, ci sono stati Joseph Fritzl e tanti altri architetti dell’abominio che hanno scalzato dall’immaginario i vecchi, innocui serial killer. Agli autori chiedo chiedo…

Cosa è successo al mondo da quando avete iniziato? Intendo, quali sono stati, in questi quindici anni, gli eventi che hanno cambiato la percezione dell’umanità nei confronti di sesso e violenza, a vostro parere? E quando questo è successo, perché è decisamente successo, come ha cambiato la gente?

RC: Sono accadute tante cose, e alcune le hai già menzionate tu. Mutamenti (epocali e non) in successione così rapida da essere ottundenti. Quando stavamo scrivendo il libro, l’11 settembre segnò un prima e un dopo, in termini di immagini squassanti, sconvolgenti. Oggi, rivedere quelle immagini ha un sapore simile a quello dei reportage in bianco e nero dai campi di concentramento dopo la fine della seconda guerra mondiale, o dal Vietnam. Ormai siamo ben oltre: qualche anno fa ti avrei citato l’impiccagione di Saddam che, ripresa da un telefonino, fa il giro del mondo, o i serial killer di Dnepropetrovsk che riprendono i propri delitti; oggi abbiamo i video dell’Isis e il primo divo dello snuff versione 2.0., il (fu?) Jihadi John. E chissà cosa ci riserva il domani. L’escalation di immagini, informazioni, materiale audiovisivo di ogni tipo e diffusione, ha portato a un caleidoscopio in continuo movimento, sempre più problematico da interpretare. In particolare, credo che questa fluidità abbia preso possesso delle nostre vite e della nostra percezione del mondo al punto da accompagnarci senza apparenti traumi all’abbandono di quei pilastri forti (tabù, senso del proibito, ma non solo) che in qualche modo ci ancoravano a un punto di vista fisso e preciso, giusto o sbagliato che fosse, di fronte a fenomeni o immagini “forti”. Oggi viviamo in un mondo fluido in cui tutto è ugualmente alla nostra portata, raggiungibile e consumabile, si tratti di pornografia estrema o nudi rubati di stelle del cinema, decapitazioni e video virali di gattini. E l’eventuale avvertenza “Attenzione! Immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità” è l’equivalente dei fervorini all’inizio delle vecchie pellicole exploitation.

TLS: Negli ultimi quindici o vent’anni tutto è diventato fluido, impalpabile, e non lo dico solo io, lo dice la migliore sociologia. Come già diceva Guy Debord, “tutto si è allontanato in una rappresentazione”, e l’11 settembre, ricordando anche Baudrillard, è stato un po’ lo spartiacque, quel momento in cui la storia, qui intendendo per storia l’insieme delle relazioni fra gli individui, da solida si è fatta liquida. I rapporti tra reale, rappresentazione e immaginario sono diventati via via più paradossali e difficili da interpretare, e le migliori epistemologie hanno preso a barcollare di fronte a ogni nuovo fatto rilevante. Sesso e violenza incrociano le immutabili lotte per la sopravvivenza e per il potere; cruente battaglie almeno in apparenza senza né vinti né vincitori, in quel lunghissimo processo di civilizzazione mirabilmente descritto da uno studioso come Norbert Elias. Com’è cambiata la gente non saprei dire: a sentire cosa dicono le persone per strada direi in peggio, ma non mancano i guizzi e le positività, e ci sono sforzi intelligenti, spesso titanici, che aspettano con impazienza di farsi largo.

A serbian film

In che modo tutto ciò ha cambiato il cinema? Un tassello importante del cambiamento è internet ma c’è dell’altro. Nell’horror la violenza del Torture Porn ha guardato più che altro al passato, sfruttando bene o male il fatto che di tanta brutalità lo spettatore non aveva più memoria. In alcuni casi è divenuta rivendicazione artistica. Come è cambiata la violenza nel cinema?

TLS: Al cinema la violenza è dappertutto e forse in nessun posto, anche perché si è concettualizzata all’inverosimile, ma non per questo, lo dico con convinzione, ha smesso di parlare della società in cui nasce. Certo, Tarantino ne ha fatto fumetto, ma ben prima di lui Sergio Leone l’aveva resa astratta, materia da dettaglio, con immagini che avevano, parafrasando, “qualcosa a che fare con la morte”. Tutto ciò nei decenni è entrato nei codici di interpretazione, fin dentro il dna dello spettatore, addirittura in un qualsiasi film episodio di Star Wars: e un film come Salò, oggi che lo riproiettano al cinema, un giovane lo rifiuta. Non è che non lo sopporta perché preso da disgusto: non lo capisce proprio, lo percepisce come provocazione fine a se stessa, con una genesi irrimediabilmente legata a tempi remoti. E allora viene da pensare che il cinema, prima di posizionarsi ai margini, sia invecchiato non prima di essere diventato adulto; direi fin troppo adulto. In seguito, con l’estremo cosiddetto “da festival”, si è fatto anche cinico e furbo.

RC: Innanzitutto, c’è da dire che il concetto di “cinema estremo” è stato ormai codificato, ed è entrato nel linguaggio comune come la supercazzola di Amici miei. L’Oxford Dictionary of Film Studies lo definisce così: “A group of films that challenge codes of censorship and social more, especially through explicit depiction of sex and violence, including rape and torture”. E codificarlo è già un modo per imbrigliarlo, volenti o nolenti. Ad ogni modo, la parola chiave qui è challenge. Sfidare. Qual è la sfida, oggi, dopo tutto quanto s’è detto prima? Se oggi io regista decido di fare un film estremo mi devo confrontare con un insieme di pellicole, immagini, precedenti scritti che da un lato condizionano il mio immaginario, dall’altro limitano l’efficacia del mio discorso. Hai voglia a realizzare la più dettagliata o sanguinosa scena di squartamento o cannibalismo o che altro: stai comunque camminando su sentieri che un tempo erano impervi e vergini, oggi sono autostrade, senza limiti di velocità. Ecco perché bisogna avere la forza e l’intelligenza di battere altre strade, ove possibile.

Così come è cambiata la NON violenza. Come immagino saprete, il mercato cinematografico occidentale è in crisi. Si fa molto e si vende poco. La censura è diventata ancora più volontaria. Banalmente, un tempo facendo un film estremo si andava sul sicuro almeno su un mercato come il Giappone. Dopo i recenti fatti di Kyoto quel mercato cerca film per famiglie. Con l’horror ci vanno cauti, perché rischi di non essere distribuito, e quindi il mercato chiede sempre di più il crossover con la commedia, perché l’orrore torni ad essere innocuo ma con la progenie di fan che ha alimentato. Chi vuole fare l’estremo sembra essere diventato cretino, spingendo un gioco fine a se stesso. Che succede alla coscienza dei film maker, siano essi registi, produttori o sceneggiatori?

RC: L’horror, come scrivi giustamente, ha subito un emblematico processo di disinnesco dei contenuti potenzialmente offensivi. Perché da un lato si è tornati a un utilizzo abbondante di blood and gore, ma dall’altro si è assestato su meccanismi adolescenziali che operano con la stessa logica del comfort food o del marketing dell’hi-tech. Anche il reboot del vecchio classicone horror di turno è come il nuovo modello di smartphone, tutto luccicante e pieno di app fighissime. E che importa se dopo un anno è già da buttare? Dall’altro lato, penso che con la libertà apparente data dalla facilità di accesso al mezzo si sia persa per strada da parte di molti film-maker la capacità di aggirare gli ostacoli, e di colpire a fondo. È per questo che mi lasciano freddo operazioni come la riscoperta nostalgico-cinefila degli anni ’80 di Turbo Kid, per non parlare del cannibal-movie secondo Eli Roth. Il senso dell’estremo non si recupera col citazionismo, o con il gioco a chi piscia più lontano.

TLS: A questa domanda è arduo dare risposta. La bambinizzazione dell’horror non è un fenomeno recente, e pur fra numerose cadute ha dato alcuni frutti accettabili; così il crossover e tutte quelle contaminazioni che ne hanno ammorbidito, ma anche arricchito, storia e linguaggio. Mi viene in mente Polanski (Per favore… non mordermi sul collo, averne, oggi). Certo, è il passato, ma non è che escano sempre capolavori, e a volte, magari per decenni, bisogna sapersi accontentare.

Bisogna ripartire dall’idea semplice di fare buoni film, immagino, e con tutte le difficoltà dei tempi credo sia ancora possibile: è vero, ci ritroviamo con le tiepide ossessioni dei vari Final Destination, ma perché non dare merito a ottimi paurosi film come ad esempio The Descent? Dell’horror e dei suoi arcipelaghi non mi preoccuperei molto: il genere è nato nobile, con l’espressionismo, e con un buon numero di prove ha acquisito sufficienti anticorpi per resistere alle montagne russe dei tempi.

L’estremo per l’estremo non ha senso: è puro dilettantismo, o attacco più o meno gratuito alla morale dello sguardo.

Salò o le 120 giornate di sodoma

Perchè invece in TV si può vedere sempre di piu’? HBO aprì i battenti con Oz, mostrando schiavitù sessuale violenta tra individui dello stesso sesso. Da allora non si sono più fermati. Ma la TV non era la culla del perbenismo?

TLS: Ciò che dici non mi sorprende affatto. La tv, commerciale o di stato, in concorrenza o in monopolio, è tutto e il suo contrario, quindi sarà anche stata la culla del perbenismo, non so. In certi periodi, e in certi paesi (fra questi il nostro), sicuramente lo è stata. In genere però comandano gli ascolti, e gli ascolti portano soldi: i soldi, soprattutto quando sono tanti, permettono investimenti, sperimentazioni impensabili, innovazioni del linguaggio e nelle tematiche, e di questo produttori e autori hanno bisogno, per creare circoli virtuosi capaci di mettere d’accordo obiettivi quantitativi ma anche qualitativi. Il «medium è il messaggio», ogni medium risponde in maniera originale alle esigenze della società, e dalla società è a sua volta condizionata. La televisione sta vivendo una trasformazione, così come il modo di guardare; in Italia, ad esempio, con il digitale terrestre e la pay tv è cambiato tutto. Ma il discorso sarebbe lungo.

RC: L’asino va dove lo mena il padrone, e il padrone sono sempre i soldi. La TV si adegua ai tempi, e già che c’è, testa fino a che punto ci si può spingere, in termini di penetrazione di mercato e guadagno economico. E tuttavia, in TV l’autorialità è ancora un buon viatico per far passare sperimentazioni, immagini estreme, piccoli strappi al tessuto del rappresentabile – vedi il feticismo chirurgico di The Knick di Soderbergh, per dirne uno. Di contro, il cinema mainstream Usa è sempre più luogo di film-evento, si preferisce investire cento milioni in un solo blockbuster piuttosto che dieci milioni in dieci film, e la forbice tra indipendenti e grandi produzioni si è ampliata al punto da portare alla scomparsa quasi totale di quel cinema medio adulto che formava il midollo pe(n)sante dell’industria statunitense, e che a suo tempo era capace di scuotere a fondo lo spettatore. E allora, pur con tutti i dovuti distinguo, ecco che un autore come Spike Lee deve ricorrere a Kickstarter per finanziare Da Sweet Blood of Jesus, che Abel Ferrara è ormai di casa in Europa, che John Waters non fa film da undici anni, che altri registi lavorano ormai costantemente in televisione. E lì, magari, trovano quei piccoli margini di libertà che al cinema sono loro ormai negati.

Con il passare del tempo ci si aspetta che l’interesse per il cinema estremo in senso lato, si sopisca. Invece questo per alcuni, tra cui voi e noi, non avviene. Non senza una certa soddisfazione. Perché?

 Forse in me l’interesse si è sopito più volte per poi rinascere, chissà. Dal 2003 sono passati dodici anni senza contare il lungo periodo di gestazione, che fu di quasi un lustro: quando nacque l’idea del libro la mia passione per certi film e per certi temi era al massimo, poi sono cambiate tante cose. Oggi il cinema, non solo quello estremo, lo seguo un po’ meno, non è il centro dei miei interessi, ma in fondo sono sempre stato curioso di tutto, e la cosa non mi sorprende. Inoltre, se vogliamo, Sex and Violence non è mai stato un libro “solo di cinema”: fin dall’inizio impianto e metodo si avvalsero di un approccio trasversale e di uno sguardo a tratti ingenuo ma comunque sempre complesso, “scientifico”, e, mi sembra, mai banale

Aggiungo che a Sex and Violence come avventura umana prima ancora che editoriale sono parecchio affezionato, e anche al di là dei temi trattati. Con Roberto poi c’è un’amicizia passata per tanti fatti ed episodi, momenti belli ma anche difficili, comunque indimenticabili. Averlo conosciuto, ma direi “averli conosciuti”, estendendo il piacere alla moglie Cristina, è senz’altro una delle cose più belle che mi siano capitate.

RC: Forse perché confrontarci con l’estremo, qualunque cosa esso possa rappresentare per noi, ci ricorda di essere vivi. Ci scuote. E oggi come oggi ce n’è davvero bisogno. Un tempo, per lo spettatore medio, questa scossa – penso, chessò, ai mondo movie di Jacopetti e dintorni – era la risposta a una fame di conoscenza. Il mondo era così limitato, così poche e traballanti erano le fonti di esperienza, che qualsiasi brusco squarcio in questo velo era un’epifania, un imprinting. Per chi non aveva mai messo il naso fuori dal raccordo anulare, l’immagine del bonzo che si dà fuoco o dei riti di fertilità in Africa erano esperienze indimenticabili, destinate a imprimersi a fuoco nella memoria e nell’immaginazione. Oggi, archiviando in un batter d’occhi, o di click l’ennesima sollecitazione sensoriale, l’estremo è solo un blando pungolo per sottrarci alla noia e alla routine, e mettere in discussione noi stessi, il mondo in ci viviamo e il nostro rapporto con esso.

So che ci sono aneddoti interessanti sulla nascita di questo terzo volume. Volete parlarne?

RC: Diciamo che è stato un blitzkrieg. Da un giorno all’altro ci è stato comunicato che sarebbe uscita una nuova edizione, e immaginando lo sconforto e l’incazzatura del lettore (ebbene sì, esistono ancora) che entra in libreria (ebbene sì, resistono ancora), acquista il libro e si trova davanti un testo fermo al 2006/2007, abbiamo chiesto di rimetterci le mani. Ben sapendo che lo spazio per aggiunte non era tantissimo, visto che partivamo già da un volume di oltre 600 pagine, abbiamo pensato a interventi mirati. Per cui, innanzitutto, ricontrollare minuziosamente titoli, date, grafie eccetera, per correggere inesattezze varie che ci eravamo lasciati dietro; rimediare a dimenticanze più o meno importanti (ad esempio, sono contento di aver trovato il modo di aggiungere qualcosa su Nikos Papatakis, autore di un film straordinario come Les abysses); aggiornare filmografie e profili autoriali. E, soprattutto, ridisegnare il capitolo conclusivo, quello che tira le fila del discorso, cercando di raccogliere titoli meritevoli di menzione e analisi usciti negli ultimi otto anni, avendo ben chiaro che inserire tutto era insensato, prima ancora che impossibile. Non ci interessava allora, né ci interessa oggi, compilare un’enciclopedia dell’estremo.

Tutto ciò in tempi strettissimi, cormaniani direi. Per cui, full immersion matta e disperatissima, costante contatto a distanza, con Tommaso che magari mi mandava un paragrafo via sms in piena notte e io che a mia volta lo tampinavo con quesiti esistenziali su Martyrs o A Serbian Film. È stata un’esperienza strana, perché rileggersi a distanza di tanti anni ti mette a confronto con un te stesso passato con cui ormai non ti riconosci più del tutto, vuoi perché i gusti sono mutati, vuoi perché alcune cose le scriveresti in maniera differente o non le scriveresti affatto, e così via.

TLS: Aneddoti veri e propri non credo ce ne siano. L’editore ha richiesto una nuova edizione, e con qualche perplessità dovuta al poco tempo disponibile ci siamo messi al lavoro. Roberto è preciso e veloce, una macchina da guerra, e a volte lavorare in fretta può nuocere alla coerenza e al quadro generale. Ne eravamo coscienti al punto che tenendo fermi metodo e stile abbiamo via via rinunciato ad approfondire e ad allargare troppo il discorso quando premevano nuovi spunti e suggestioni. Certo, ci rassicurava un metodo di lavoro collaudato e condito da pazienza, tolleranza e infinita stima reciproca: per essere un’edizione riveduta, aggiornata e ampliata, qualcuno potrebbe trovare sorprendente il fatto che il libro sia regolarmente uscito senza esserci mai incontrarci di persona per tutto il periodo di revisione. Non so se esistano casi simili, occorrono senza dubbio maturità e un atteggiamento zen.

Les Abysses

Oltre a nuovi titoli, cosa vi è di nuovo nella terza edizione di Sex & Violence?

RC: Di nuovo c’è che siamo più vecchi di quindici anni o più, con tutto ciò che questo comporta. Quando abbiamo iniziato a pensare a Sex and Violence eravamo consumatori compulsivi di estremo, facevamo colazione con Nekromantik, merenda con i film di Otto Muehl, e a cena qualcosa di leggerino tipo un nazi-movie di Bruno Mattei. Oggi, dovendo impegnare due ore della mia esistenza, piuttosto che rivedere per la quindicesima volta Antropophagus preferisco fare una passeggiata col mio cane o dedicarmi al giardinaggio. E il modo di vedere, pensare e scrivere ne risente. Cambiano i punti di vista, i giudizi sui singoli film, sugli autori. Penso a Jesús Franco: continuo a mal sopportare film come Il conte Dracula o Il trono di fuoco, ma oggi più che mai ritengo sia uno dei registi più stimolanti, intelligenti e vivi che abbiano attraversato la storia del cinema. E il capitolo su di lui è stato riscritto da cima a fondo. E poi, appunto, c’è il capitolo finale “Specchio delle mie brame”, sull’estremo oggi, che è un blob, un’escrescenza cronenberghiana che continua a mutare da edizione a edizione, e non può che essere così.

TLS: Di nuovo c’è, mi auguro, una riflessione più matura, ma anche più scostante (nel senso di disincantata) di ciò che oggi possa dirsi, con qualche buona argomentazione, estremo. La revisione di alcuni capitoli, e specialmente dell’ultimo, “Specchio delle mie brame”, dovrebbe andare in questa direzione. Il cap. 10 è da sempre un po’ il cuore pulsante del libro, si potrebbe considerare un saggio a sé, e ogni volta rimetterci mano è entusiasmante e al tempo stesso ostico. Lì ci sono molte cose su cui io e Roberto abbiamo riflettuto e discusso negli anni, è una dissertazione a cui teniamo, e decidere di cambiare qualcosa è come indossare il camice per entrare in sala operatoria.

Dall’ultima edizione a oggi ci sono stati A Serbian Film, masse che vanno a vedere 50 Sfumature di Grigio, fino al Gaspar Noè che ha fatto il suo porno da mostrare a Cannes, Love. Ci sono dei tasselli, titoli o momenti, di questo nuovo periodo, che trovate più interessanti o significativi?

TLS: Oggi l’estremo è sfuggente. Titoli ne escono sempre, ma data la rivoluzione epocale che vive l’industria dei media (con annessa lotta per la sopravvivenza di cinema e televisione) non sono alcuni film a poter fare la differenza. Mladen Djordjevic con l’apocalissi serba e Joshua Oppenheimer (The Act of Killing) con il suo orrore vicino e reale ci ricordano che soprattutto in certi luoghi life is cheap, e che l’estremo per come l’abbiamo inteso finora è vivo; ma certi sussulti, a fronte di inarrestabili cambiamenti tecnologici e culturali,  rischiano di restare clamorose eccezioni.

RC: Difficile fissare paletti. Personalmente, A Serbian Film mi fa un baffo, e le mie esperienze di cinema più estreme degli ultimi anni vanno in direzioni molto diverse dal binomio sex and violence: penso a The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, a Hard to Be a God, ai film di Brillante Mendoza, a Post Mortem di Larraín

Come mai gli italiani sono diventati prigri nel sesso e nella violenza? Che fine ha fatto Cronaca Vera? Quale soluzione crediate ci possa essere alla crisi di coppia? Un’analisi della situazione italiana al cinema e non.

RC: A che serve Cronaca Nera quando c’è Repubblica.it? Per non parlare dei flame infiniti sulle pagine facebook di Muccino o Salvini, dei programmi di Del Debbio, dei selfie delle olgettine nei bagni di Palazzo Grazioli, dei tweet di Sara Tommasi, delle interviste pornofreak di Andrea Dipré e compagnia? Gli italiani sono sazi, e non solo loro. L’eccesso nell’offerta che un tempo portava La bestia in calore o Patrick vive ancora, oggi si è parcellizzato in infiniti rivoli, in un continuo mordi-e-fuggi. Poi, in realtà, al cinema qualcosa si muove, sempre che il cinema conti ancora qualcosa. L’altra sera rivedevo Boccaccio ’70, e nell’episodio di Monicelli Marisa Solinas e il marito, per trovare un momento di intimità, entrano in un cinema strapieno, con spettatori in piedi in ogni angolo della sala, le teste in alto a guardare il film: un momento bellissimo che riempie di una tristezza infinita.

TLS: Non so che fine abbia fatto Cronaca Vera, in compenso in edicola vedo tante (pessime) pubblicazioni legate a tragedie, fatti di sangue, sparizioni misteriose. Tanta roba (robaccia?) passa senz’altro sul web, da questo punto di vista la rete ha sparigliato tutti i calcoli e reso più difficile qualsiasi analisi di costume. Gli italiani sono diventati pigri? Non saprei. Roberto Gervaso, con quella che è una battuta fino a un certo punto, una volta li ha definiti “pecore anarchiche”. Sulla crisi di coppia non ho risposte, né soluzioni. Mi sento un po’ come Massimo Troisi quando il giornalista gli chiedeva: “Troisi, che dice, ci sarà vita su Marte?”

“Non sono che un critico”, come diceva uno più famoso di me che ci ha lasciato da poco.

The act of killing

Con cosa si combatterà la quarta edizione di Sex & Violence? Con pietre e bastoni?

TLS: Non lo so. Ho avuto già le mie difficoltà, e credo che la cosa riguardi anche Roberto, a capire come sia stata “combattuta” la terza. Sex and Violence sta diventando un po’ come il Torrente-Schlesinger in diritto privato o il Reale-Antiseri in filosofia: un manuale destinato a espandersi e da tramandare, con onori e oneri, agli eredi. Prima o poi, immagino, ad aggiornarlo ci dovranno pensare figli e nipoti.

RC: Chissà. Se mai si farà, probabilmente non si combatterà sulle mappe del cinema, o comunque solo in parte su di esse. La tentazione di ritornare sul luogo dell’estremo c’è sempre. Per me e per Tommaso, scrivere Sex and Violence è stata un’esperienza catartica, un rito di passaggio, il punto d’arrivo di un’adolescenza e una età adulta passati a nutrirci bulimicamente di immagini di ogni tipo. Per quelli della mia generazione, tanto per fare un esempio schietto, l’approccio alla pornografia era il numero di “Le Ore” passato sottobanco dall’edicolante compiacente, o la vhs di un film con Marina Lotar contrabbandata nell’ora di ricreazione dal ripetente della classe accanto. Parimenti, ti poteva capitare di noleggiare un film “al buio” in videoteca e ritrovarti a guardare Sexandroide di Michel Ricaud o Ilsa la belva delle SS senza sapere bene di cosa si trattasse: le porte della percezione si spalancavano, ed entrava di tutto. Ossia, la fruizione dell’estremo (o del proibito, che per noi necessariamente doveva coincidere) passava attraverso un certo grado di fatica, era come la scalata della montagna sacra per i saggi di Jodorowsky. C’era la sensazione di superare delle tappe, delle stazioni: c’era la fatica fisica di scrutare tra un pixel e l’altro per capire chi diavolo stava facendo cosa a chi in quel film di Nick Zedd o Shaun Costello, o fingere che il sangue, in quella copia di quarta generazione di The Wizard of Gore, fosse ancora rosso anziché grigio. Le linee di drop-out di una vecchia vhs come tapparelle da scostare per sbirciare una visione proibita… Ora, con pochi click puoi avere accesso all’opera omnia di Simon Thaur o scaricarti la filmografia di José Mojica Marins. Ecco, mi chiedo: se avessi ora diciotto o vent’anni, e volessi scrivere un libro sull’estremo, con quali occhi vedrei tutto ciò? Da quale prospettiva? Forse, appunto, è l’ora di passare il testimone. O forse no. Al di là di tutto, per quel che mi riguarda, Sex and Violence è soprattutto il coronamento di una bellissima amicizia tra me e Tommaso nata, pensa un po’, nei luoghi virtuali del newsgroup it.cultura.horror, tra infinite discussioni su Cannibal Holocaust e sugli snuff movie, tra troll, fake, appassionati veri e personaggi esilaranti. E sono felice e orgoglioso delle manifestazioni di stima di lettori che ci scrivono di averlo letteralmente consumato, e che sono pronti a riacquistarlo per la terza volta in dodici anni. Voglio citarti questo aneddoto: ci ha recentemente scritto dall’America un giovane studioso di cinema, che conosceva il libro solo di fama dopo averne letto una recensione in lingua inglese, chiedendo se ci sarà mai una traduzione, e scrivendo, ti cito alla lettera: “The few books in English about extreme cinema are rather narrow in scope. They don’t go in-depth with the history and pre-cursors to contemporary extreme cinema (which is often the author(s)’ primary focus), nor do they sufficiently look at extreme cinema with a global lens. These are just two of the reasons why your book would enrich the English literature out there on extreme cinema.” Il che, se mai accadrà, vorrà dire, per noi, un’inevitabile quarta edizione riveduta e aggiornata: e, da accaniti consumatori di immagini estreme, siamo in grado di resistere a tutto, tranne che alle tentazioni…

Gianluigi Perrone

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