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‘The Witch’: il diavolo è negli occhi di chi guarda
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4 ore agoon
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, una piccola fattoria. Sorgeva sul limitare di un grande bosco nero.
“Ricordate, bambini”, diceva la mamma, “non dovete mai avvicinarvi alla foresta. Mai!”
“E perché, mamma? Perché non ci possiamo andare, nel bosco?”
“Lo sapete bene chi ci abita, nel bosco. E sapete benissimo cosa fa ai bambini come voi… giusto?”
“Quindi è vero, mamma? Nel bosco, ci abita la… la str…”
“La strega!”
“The Witch!”
Ma, ahimè, talvolta non è sufficiente stare alla larga dai mostri per evitarli. Talvolta, sono i mostri ad uscire allo scoperto. Talvolta, addirittura, i mostri si travestono. Da lupo, da caprone nero, persino da esseri umani. E quando ce ne rendiamo conto, beh, ormai è troppo tardi. Tutto quello che possiamo fare, è affidarci alle mani dell’Altissimo, perché ci possa accogliere nel suo regno, senza farci troppo soffrire.
Oh Signore onnipotente, abbi pietà di noi, e accoglici nel regno dei cieli, anche se siamo peccatori e abbiamo offeso il tuo nome. Ti prego, salva le nostre anime, e non condannarci a bruciare in eterno.
Dieci anni sono passati dall’uscita in sala di The Witch, opera prima del genio di Robert Eggers, eppure la pellicola sembra non essere invecchiata nemmeno di un secondo. Anzi, più passa il tempo, e più ci si rende conto della sua imprescindibile importanza nel panorama dell’horror contemporaneo. Il film di Eggers riesce in un impresa impensabile: riportare in voga un genere che sembrava non avere più nulla da dire. Ma in che modo?
Semplice. The Witch fa paura, paura vera. Niente jumpscare, niente mostri grotteschi, niente CGI, niente litri di sangue, niente storie assurde e incredibili. Niente di tutto questo.
The Witch terrorizza proprio perché è verosimile, vivido, lucido.
L’orrore, in Eggers, è maledettamente reale.
Thomasin sul limitare del bosco, dove tutto ha inizio
The Witch – Che fine ha fatto Samuel?
L’impostazione della pellicola è classica, a tratti quasi scolastica.
1630, New England. Una famiglia puritana va ad abitare nel cuore di una foresta. Un giorno, all’improvviso, l’ultimogenito Samuel scompare misteriosamente e non viene più trovato. A prenderlo sarà stato un lupo, spiegano i genitori agli altri figli, ma il sospetto è ben diverso: si dice infatti che nel bosco viva una strega. Se fosse stata proprio lei?
La paura quindi si insinua nelle mura domestiche, corrodendo via via la fiducia reciproca, e trascinando i protagonisti in un’infernale spirale discendente.
É esattamente questo aspetto paranoico a rendere The Witch un capolavoro. Il mostro, l’elemento anomalo e sovrannaturale, non compare praticamente mai. A dirla tutta, forse nemmeno esiste.
La paura, invece, è concreta, e si annida proprio nei rapporti sempre più tossici e ossessivi che si instaurano tra i membri del nucleo familiare.
È l’atmosfera a creare il terrore, non il contrario. Eggers mette in scena un oscuro kammerspiel che racconta di follia, ossessione, menzogne ed estremismo religioso. Crea un trattato sociologico sul potere della psicosi e su come essa si diffonda senza alcuna possibilità di essere arginata: un morbo senza scrupoli che si autoalimenta con una potenza letale.
E che cosa, meglio di un capro espiatorio, può nutrire tale pestilenza?
La famiglia ringrazia il Signore per la “terra benedetta” che ha donato loro
The Witch – Caccia alla strega
Chi ha portato il diavolo in casa? Chi ha insinuato il demonio nelle giovani membra dei gemelli Mercy e Jonas? Chi ha consegnato il puro Caleb ad una raccapricciante possessione?
Tutti i sospetti ricadono su una e una sola persona: la primogenita Thomasin. Interpretata meravigliosamente da Anya Taylor-Joy, qui al suo debutto, la ragazzina sembra in modo inequivocabile essere il catalizzatore di tutti i macabri avvenimenti che minano la serenità familiare.
Il contesto chiuso ed isolato si fa ambiente fertile per il bacello della paranoia. La famiglia vive, sin dall’inizio, in una bolla epistemica dove ogni evento naturale è interpretato come segno divino o demoniaco, ogni dubbio è peccato, ogni errore è castigo, ogni desiderio è tentazione.
La loro fede non spiega la realtà: la produce.
Se una vacca non dà latte, non è la malnutrizione: è il Diavolo.
Se un bambino scompare, non è la foresta: è una strega.
Se Thomasin cresce, non è adolescenza: è seduzione satanica.
In questo quadro, la distinzione tra “veramente accaduto” e “proiezione paranoica” perde completamente di senso.
La strega esiste perché la loro mente ha bisogno che esista. E Thomasin è l’identikit perfetto.
Black Phillip e i suoi due adepti, Jonas e Mercy
La strega come immagine, prima che creatura
Per comprendere la potenza di questa equazione mentale, serve guardare fuori dal film, verso il mondo visivo che formava l’immaginario puritano del 1600.
I pamphlet protestanti dell’epoca, illustrati da xilografie rudimentali, ritraevano donne nude che volavano con Satana, caproni parlanti, rituali orgiastici nel bosco. Le incisioni fiamminghe raffiguravano sabba popolati da demoni minori e unzioni di sangue; gli stessi frontespizi delle prediche ammonivano i fedeli con figure mostruose che oggi sembrerebbero caricature, ma che allora erano percepite come realtà documentaria.
Eggers attinge direttamente a questo repertorio iconografico.
La sua strega non è “realistica”: è iconograficamente fedele. È la strega così come l’avrebbe immaginata – o temuta – un puritano del 1630. Non è un essere soprannaturale: è un’immagine che prende vita.
E quando un’intera comunità crede nella veridicità di tale immagine, eccola diventare reale nel modo più pericoloso possibile: determina il comportamento, la paura, la punizione.
È l’immaginario – non i fatti – a governare la vita della famiglia.
L’attimo prima della tragedia
The Witch – La verità che divora la realtà
Qui il pensiero di Hannah Arendt illumina il film con precisione chirurgica. Arendt osservava che i sistemi totalitari non si limitano a manipolare i fatti: li sostituiscono con una narrazione così assoluta da non poter essere contraddetta in alcun modo.
Nel mondo della famiglia puritana non esistono più eventi, ma solo conferme della loro cosmologia. La realtà non entra mai davvero in scena, perché ogni fenomeno è già letto, già interpretato, già piegato alla dottrina.
In The Witch la “verità religiosa” non è più una via per comprendere il mondo, ma uno strumento che lo annienta.
La paranoia non è uno scarto patologico: è la forma stessa della verità.
La famiglia vive in un universo dove la spiegazione precede il fatto, dove tutto è già scritto in un copione teologico immodificabile.
La foresta non è un luogo: è un significato.
Thomasin non è una figlia: è un simbolo in attesa di diventare colpevole.
Quando la verità diventa totalizzante, non è più distinguibile dalla follia.
The Witch mostra esattamente questo: una comunità che si autodistrugge perché incapace di tollerare una realtà che non coincida con la propria paura.
E in questo quadro, persino il dettaglio del grano contaminato dall’ergot – storicamente responsabile di allucinazioni e convulsioni – aggiunge un livello ulteriore di crudeltà: anche se gli eventi fossero “naturali”, verrebbero comunque interpretati come satanici. L’ideologia è impermeabile ai fatti.
Il grano contaminato
The Witch – La stregoneria come ultima via di fuga
Alla fine del film sorge spontanea una domanda: la strega esiste davvero?
La risposta è sorprendentemente semplice: non è rilevante.
Ciò a cui assistiamo non è un resoconto della realtà, ma della percezione della realtà. Eggers non filma una strega: filma ciò che una famiglia puritana del 1630 avrebbe visto come strega. L’intero racconto è filtrato attraverso un immaginario religioso totalizzante, dove il male è sempre già presente, in agguato dietro ogni gesto e ogni parola.
Finché i protagonisti credono nella strega, la strega esiste. E tanto basta per distruggere la loro vita.
E’ proprio in questa frattura tra realtà e percezione che avviene la metamorfosi più terribile: Thomasin non sceglie la stregoneria, la incarna.
Il suo abbandonarsi all’occulto non ha nulla di esoterico: è un gesto di sopravvivenza, l’unica identità possibile in un mondo che la vuole colpevole.
La sua trasformazione non è un cedimento morale, ma la performatività della verità puritana.
Se tutti ti trattano come una strega, se ogni tuo gesto è interpretato come peccato, se il tuo corpo è percepito come minaccia, allora l’unica via rimasta è diventare ciò che gli altri hanno già deciso che tu sia.
Nella realtà distorta in cui è intrappolata, Thomasin non può essere altro. La stregoneria non è un destino soprannaturale: è la sola identità sopravvissuta all’ideologia che l’ha divorata.
Thomasin si abbandona al sabba
Il fascino discreto di Black Phillip
In fondo, The Witch non ci dà alcuna risposta definitiva.
Eggers mantiene ogni strada aperta: la realtà resta ambigua, sfocata, sempre un passo oltre la nostra certezza. L’unica verità possibile è quella che i personaggi si costruiscono da soli — e che li divora.
Una volta che un’immagine prende vita, nulla può più fermarla.
Nemmeno la ragione.
Nemmeno l’amore.
Nemmeno Dio.
E mentre il bosco si richiude alle spalle di Thomasin, ciò che rimane è solo il sussurro inquietante dei due gemelli, la raccapricciante filastrocca che accompagna tutto il film come una profezia maligna:
“Black Phillip, Black Phillip,
a crown grows out his head.
Black Phillip, Black Phillip,
to nanny queen is wed.
Jump to the fence post,
running in the stall.
Black Phillip, Black Phillip,
king of all.”