Quando apri la copertina del romanzo di Nathaniel Hawthorne e poi guardi il film La Lettera Scarlatta del 1995 di Roland Joffé, capisci subito che non è una traduzione: è una riscrittura. Dove il libro, e un precedente adattamento cinematografico del 1973, giocavano la carta della colpa, della condanna, della vergogna sociale, questo film opta per il desiderio, la passione e la ribellione. Una scelta audace, che ti fa capire fin da subito: qui non si cerca più la punizione. Si cerca la redenzione, la libertà, forse anche la rivendicazione.
Con Demi Moore (Hester Prynne), Gary Oldman (Reverendo Dimmesdale) e Robert Duvall (il tormentato Chillingworth), Joffé costruisce un’altra storia. Non quella rigida e puritana di Hawthorne, ma una in costume che profuma di melodramma, con guerre, conflitti, amori proibiti e un lieto fine “come in un film moderno”.
Un film curato nei dettagli e libero nell’anima
Non si può negare che il film sia visivamente curato: ambientazioni, scenografie, costumi, paesaggi. Joffé e la sua troupe si impegnano per rendere il New England coloniale con una precisione quasi ipnotica, e certe scene nella foresta o nella città puritana riescono davvero a restituire tensione e suggestione.
Però, ed è qui che comincia il conflitto, quella bellezza estetica viene messa al servizio di una narrazione che tradisce il cuore del romanzo.
Il risultato? Una versione che sembra fatta per piacere allo spettatore più che per rendere giustizia al testo. Il peccato non è più un atto da espiare, ma un passo verso la libertà. La “A” sul petto di Hester cessa di essere marchio d’infamia e diventa, in qualche modo, medaglia di coraggio.
Passione ed emancipazione: una nuova Hester
E qui sta il ragionamento su cui il film punta e a cui in parte si risponde con empatia: l’idea di dare a Hester non la colpa e la vergogna, ma la dignità di una donna che ama, sbaglia, lotta.
Demi Moore costruisce una Hester consapevole, dura, capace di resistere. Di rivendicare. Di sopravvivere. Diversa dalla ragazza punita di Hawthorne, e forse più riconoscibile oggi.
E Gary Oldman, con il suo Dimmesdale, tenta di esprimere la fragilità dell’uomo diviso tra dogma e desiderio, anche se la sceneggiatura, come spesso accade qui, punta di più al dramma romantico che al conflitto morale. Infine, Robert Duvall interpreta e rimodella un Chillingworth che nel romanzo era disperazione e vendetta, ma qui diventa una figura quasi cinematografica, meno sfumata, più caricata.
Una provocazione intenzionale
E allora, perché annoverare La lettera scarlatta del 1995 tra i film che vale la pena di vedere?
Perché, nonostante tutto, è un film che osa e cambia la tonalità, il contesto, la morale. È un film che chiede allo spettatore di mettere da parte pregiudizi e aspettative, e di accettare un adattamento libero, coraggioso, a volte scomodo.
Allo stesso tempo, quei compromessi narrativi come il lieto fine hollywoodiano, la spettacolarizzazione della colpa, la trasformazione del peccato in passione, fanno sentire la mancanza di quell’intensità morale, spirituale e dolorosa che rendeva il romanzo del 1850 un capolavoro di introspezione.
Quindi sì: guardando il film oggi, con occhio attento, ci si rende conto di quanto sia un film a metà tra la tragedia morale e il melodramma romantico. Un ibrido che può piacere molto, o far storcere il naso. Ma che, in ogni caso, non lascia indifferenti.

Dalla colpa alla scelta, dalla vergogna all’identità
La lettera scarlatta del 1995 non è una rivisitazione minimale. È una riscrittura totale, con tutte le sue ambizioni, le sue cadute di tono, i suoi compromessi. E la cosa bella è che lo fa con consapevolezza e forza, con la voglia di attualizzare un classico, non di fossilizzarlo in un passato inaccessibile.
Se amate il romanzo, sappiate che questo film non ne è una traduzione. Ma se siete pronti ad accettare la sfida, a vedere Hester non come vittima ma come donna che sfida una morale, allora vi troverete davanti a un adattamento che resta stimolante, tagliente, a modo suo provocatorio.
E forse, a quasi trent’anni di distanza, è proprio questa voglia di provocare che lo fa sentire ancora vivo.