Rome International Documentary Festival
RIDF 2025: Visioni e Prospettive con Emma Rossi Landi
Un festival che conferma la sua vocazione internazionale e il suo ruolo di osservatorio privilegiato sul cinema del reale.
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5 giorni agoon
Roma accoglie la quarta edizione del Rome International Documentary Festival (RIDF), che anche quest’anno conferma la sua vocazione internazionale e il suo ruolo di osservatorio privilegiato sul cinema del reale.
Il festival torna a celebrare il documentario in tutte le sue forme, presentando una selezione articolata nelle tre sezioni di concorso — WORLD-DOC, ITA-DOC e SHORT-DOC — e accompagnando la programmazione con momenti di approfondimento, incontri e proiezioni speciali.
Al centro di questa edizione 2025 spicca la composizione delle giurie, che riflette un equilibrio tra esperienza autoriale e sguardi critici. Il concorso principale, WORLD-DOC, vede come presidente la regista francese Claire Simon, Leone d’Oro e figura centrale del documentario contemporaneo, affiancata dai registi italiani Alessandro Cassigoli e Francesco Munzi, quest’ultimo in continuità con la tradizione del festival che vuole il vincitore della precedente edizione nel corpo giudicante.
Il programma formativo si arricchisce di due masterclass condotte da membri della giuria: Francesco Munzi, che dialogherà con Valerio Azzali sul rapporto tra documento e finzione, e Claire Simon, guiderà un incontro ispirato al suo film Writing Life, ponendo al centro il legame tra narrazione cinematografica e biografia.
A ciò si aggiungono quattro proiezioni fuori concorso, che spaziano dall’omaggio territoriale di Anatomia di un grande sogno alla prima romana di Mr Nobody Against Putin, passando per i percorsi intimi di Identidad e The Srebrenica Tape, opere capaci di restituire memorie, radici e traumi collettivi.
Abbiamo incontrato Emma Rossi Landi, co-fondatrice e direttrice artistica del festival, che ci ha offerto una visione lucida sulle direzioni future del RIDF, e le trasformazioni in corso nel documentario contemporaneo.
RIDF 2025: Cambiamenti e novità in programma per la nuova edizione
Siamo arrivati alla 4° edizione del RIDF. Rispetto alla scorsa edizione, quali sono le principali novità del 2025, sia nella direzione artistica, sia nell’impostazione generale del festival? Ci sono cambiamenti che avete introdotto in risposta anche all’evoluzione del pubblico o del panorama documentaristico?
La grande novità di quest’anno è rappresentata dal rapporto con il Cinema Tibur, qui a San Lorenzo. Per noi è fondamentale poter contare su una sala così ben attrezzata: la qualità tecnica è eccellente, le sale sono spaziose e accoglienti, e tutto funziona perfettamente, dalla proiezione al suono. Questo ci permette di dare alle opere la giusta dignità e di offrire al pubblico un’esperienza completa e coinvolgente.
Ma la novità non è solo tecnica: il Tibur ci permette di intrecciare il festival con la vita del quartiere, di aprirci a un pubblico più vario, di coinvolgere le famiglie, i giovani e le persone che abitano qui.
San Lorenzo è un quartiere molto particolare, con una storia viva ma anche momenti di abbandono, soprattutto nelle ore diurne. Negli ultimi anni c’è stata una rinascita culturale, sostenuta anche dal Secondo Municipio, e noi siamo felici di farne parte, portando storie che parlano di vita quotidiana, di emozioni e di umanità.
La nuova sede ha reso questo legame ancora più solido permettendoci di mantenere un contatto diretto con il pubblico. Qui il cinema non è solo uno schermo: è uno spazio di incontro, di riflessione e di scambio. Questa scelta ci ha dato la possibilità di offrire una programmazione curata in un contesto che valorizza sia il film sia chi lo guarda, rafforzando così la dimensione comunitaria del festival.
Proiezione speciale di apertura locale: Anatomia di un grande sogno di Federico Braconi
Anatomia di un grande sogno non a caso è il film di apertura del festival che omaggia il quartiere di San Lorenzo, cosa volevate raccontare con questa scelta? Quanto è importante per voi rafforzare il rapporto tra il festival e il territorio che lo ospita?
San Lorenzo è un quartiere con un’identità molto forte, un luogo in cui la storia popolare si mescola all’energia dei giovani e degli studenti. Con Anatomia di un grande sogno volevamo raccontare questa comunità viva, che accoglie, si organizza e resiste, portando avanti valori di solidarietà e partecipazione. Il film racconta come, anche attraverso lo sport, le persone del quartiere continuino a costruire legami e a dare forma a un senso di appartenenza collettiva.
Per noi è fondamentale rafforzare il rapporto con il territorio: il festival non è solo proiezioni, ma un’occasione per stare insieme, condividere esperienze e raccontare la vita.
San Lorenzo diventa così un esempio concreto di come un quartiere possa mantenere il cuore collettivo vivo, trasformando storie locali in messaggi universali e offrendo al pubblico la possibilità di entrare in contatto con una realtà che è insieme memoria, energia creativa e resilienza.
Il tema dell’edizione: Infanzia e relazioni familiari
Quest’anno il festival sceglie un tema molto preciso: Infanzia e relazioni familiari. In che modo il tema ha influenzato la selezione dei film tra le tre sezioni del concorso?
Il tema dell’infanzia e delle dinamiche familiari è emerso in modo naturale. Come dico sempre, non è tanto il festival a scegliere i film, ma sono i film a scegliere il festival.
Ogni anno parlano spontaneamente di qualcos’altro, e quest’anno si sono concentrati su questo tema con grande intensità tanto che, pur avendo opere bellissime, abbiamo dovuto purtroppo lasciarne fuori alcune.
Questo approccio ci ha permesso di valorizzare sia i documentari più intimi e delicati, sia quelli che affrontano contesti sociali complessi: dal piccolo mondo di un bambino che cresce in una famiglia in crisi, alle storie di giovani che vivono in situazioni difficili o straordinarie in contesti lontani.
La selezione non è stata guidata solo dal contenuto, ma anche dall’umanità che emerge da ogni racconto: ciò che ci ha colpito davvero è la capacità dei registi di raccontare la vita vera, con tutte le sue contraddizioni, le gioie e le paure.
In questo senso, il tema diventa anche un’occasione per riflettere sul presente: ci mostra come, anche in momenti complessi come quelli che stiamo vivendo nel mondo, la famiglia e l’infanzia restino luoghi di ritrovo, crescita e scoperta.
Attraverso questi film, il festival diventa così un piccolo osservatorio sulla società contemporanea, visto attraverso gli occhi dei più giovani e delle relazioni che li formano.
Mr Nobody Against Putin un film necessario tra infanzia e oppressione
Mr Nobody against Putin racconta la trasformazione di una scuola russa sotto l’oppressione del regime. Cosa vi ha colpito di questa storia al punto di sceglierla come film d’apertura ufficiale? E in che modo incarna il tema dell’infanzia in contesti di crisi?
Questo film mostra con chiarezza come il potere e la propaganda possano entrare nella vita quotidiana dei più giovani, plasmando la loro visione del mondo. Ci ha colpito la capacità del regista di rendere visibile l’intimità della scuola e dei bambini, pur in un contesto di oppressione politica. Incarna il tema dell’infanzia perché mette in luce la fragilità dei minori in contesti di crisi, e allo stesso tempo la loro forza. È una scelta di apertura che invita il pubblico a riflettere sul ruolo dell’educazione, della cultura e della coscienza critica, anche in situazioni di forte pressione sociale e politica. Quello che mostra non è detto che non avvenga anche altrove, ma qui è raccontato in modo estremamente chiaro.
Sia Mr. Nobody Against Putin che A Little Gray Wolf Will affrontano il tema dell’influenza della propaganda putiniana, ma lo fanno da prospettive completamente diverse.
Per evitare di portare in concorso due film troppo simili — e considerando che entrambi avevano un grande valore — abbiamo scelto di aprire con Mr. Nobody Against Putin, che forse è più diretto e immediato nella sua lettura politica.
A Little Gray Wolf Will Come, invece, è un film molto più intimo e personale. La regista, che per anni ha lavorato come giornalista all’interno dei media mainstream russi, racconta il proprio cambiamento di sguardo attraverso la relazione con il marito italiano e con la figlia che vive a New York, dove lei stessa era inviata. Il film è profondamente familiare: la madre è la regista, il padre è l’operatore, la figlia entra suo malgrado nel processo creativo.
Girato nell’arco di circa dieci anni, porta con sé un altro tipo di profondità: è un film “di cuore”, emotivo, che entra nelle crepe personali lasciate dalla propaganda. Un’opera fondamentale, brillante, intelligente, che completa perfettamente il discorso sul tema.
WORLD- DOC e Mondi in crisi: l’umanità che emerge tra le guerre
Quest’anno la World-doc raccoglie storie che attraversano contesti molto diversi, dal circo di Gaza sotto i bombardamenti, alla vita di un dodicenne in un motel americano, fino agli effetti del cambiamento climatico in Bangladesh. Qual è il filo narrativo o la sensibilità comune che unisce luoghi così distanti? Ci sono altri film con tematiche simili che denunciano realtà attuali di cui ci vuoi parlare?
Il filo comune è senza dubbio l’umanità che attraversa le storie, la capacità dei protagonisti di resistere, adattarsi e creare senso anche in contesti estremi. Questi film ci ricordano che, seppure le situazioni siano lontane geograficamente, le esperienze emotive e sociali sono universali, e che l’infanzia e la speranza dei più giovani sono sempre un indicatore della salute morale e sociale di un paese.
Sì, di film ce ne sono moltissimi. Ad esempio Dom, prodotto nel trentesimo anniversario delle guerre nell’ex Jugoslavia, è uno dei tantissimi film girati quest’anno in quelle regioni. Anche lì avevamo due film simili e di grande valore, e per questo uno è entrato in concorso e l’altro fuori concorso.Lo stesso nella sezione World Doc, che raccoglie storie diversissime: dal circo di Gaza sotto i bombardamenti alle complesse situazioni dei territori occupati.
One More Show e Coexistence My Ass, ad esempio, parlano della stessa tematica ma da prospettive differenti.
In questo momento storico non si poteva immaginare un festival che non affrontasse ciò che sta accadendo tra Israele e Palestina.
One More Show è girato a Gaza negli ultimi mesi: mostra una Gaza che non si vede neanche sui social, ed è un film semplice ma devastante per la realtà che racconta. Coexistence My Ass invece offre un punto di vista israeliano che raramente conosciamo: racconta una parte di Israele contraria alla guerra, alla politica di Netanyahu, e il percorso di una stand-up comedian che decide di esprimere il proprio dissenso attraverso l’arte, dopo una lunga esperienza come funzionaria delle Nazioni Unite.
Il film si interrompe poco dopo il 7 ottobre ed è davvero illuminante: mostra persone che esistono, che spesso vengono invisibilizzate.
Non si può dividere il mondo in buoni e cattivi: sarebbe già un atto di guerra.
Per questo era fondamentale includerlo: è un film israeliano ma non governativo, che racconta una realtà interna complessa, come accadrebbe ovunque. Perché un’azione militare decisa da un governo non può essere automaticamente attribuita a tutti i suoi cittadini.
ITA-DOC e l’Italia che cambia: cosa rivelano le storie più intime?
Nella sezione ITA-DOC emergono storie intime e conflittuali, dal rapporto tra cognate in Il quieto vivere, alla relazione politica e affettiva di My Boyfriend El fascista. Che ritratto dell’Italia contemporanea emerge? E cosa raccontano delle nostre relazioni familiari?
Emergono un’Italia fatta di complessità e contraddizioni, un Paese che convive con modernità e tradizione, tensioni politiche e dinamiche familiari profonde. I film rivelano come la vita privata sia spesso uno specchio delle questioni sociali più ampie: conflitti generazionali, differenze di visione politica, necessità di negoziare l’affetto. Raccontano un’Italia da dentro le case, nei legami personali, dove si definiscono identità e appartenenze. Il documentario ci permette di vedere queste sfumature con empatia e senza giudizio.
È bello vedere come non si debba sempre raccontare temi “grandi” in chiave giornalistica o mainstream: molto spesso il mondo si vede meglio attraverso la lente delle relazioni interpersonali.
My boyfriend el Fascista è un film più istintivo, “di pancia”, mentre Il Quieto vivere è un lavoro più costruito – in senso positivo – ma sincero, pieno di italianità e calabresità. Matarrese è un regista prolifico e versatile: ci piaceva molto anche il suo film Gen, ma abbiamo scelto Quieto vivere perché più nuovo e rappresentativo. Racconta benissimo certe caratteristiche dell’essere italiani, anche negli stereotipi, ma con una chiave originale.
Il ritorno degli SHORT-DOC e della collaborazione con MyMovies
Torna la collaborazione con MyMovies, che rende gli SHORT-DOC accessibili a un pubblico molto ampio, e torna a dare centralità al formato del cortometraggio. Che tipo di risposta pensi possa avere questa scelta sul pubblico?
Il cortometraggio documentario è, secondo me, il formato perfetto per il nostro tempo: è rapido, concentrato, capace di essere emotivamente potentissimo senza disperdere energia. La collaborazione con MyMovies permette a questi lavori di raggiungere anche chi non può venire fisicamente al festival, ampliando davvero il pubblico e democratizzando la fruizione. È un modo concreto per rendere il festival più inclusivo, più aperto, più accessibile.
Credo che il pubblico reagirà con curiosità e con sorpresa, perché il formato breve ha una forza speciale: in pochi minuti può affrontare temi complessi, restituire profondità emotiva e aprire riflessioni importanti senza chiedere un grande impegno di tempo. È un linguaggio che si adatta moltissimo alle abitudini di visione di oggi, ma senza perdere rigore o densità narrativa.
I cortometraggi di quest’anno, poi, sono davvero straordinari. Stiamo assistendo a una vera rinascita del cortometraggio documentario, un formato che fino a qualche anno fa era quasi impraticabile perché mancavano spazi produttivi e distributivi. Oggi la situazione è cambiata: ci sono nuove opportunità, nuove piattaforme e anche un rinnovato interesse da parte degli autori. E infatti la qualità delle opere è altissima. Scegliere solo dieci titoli è stato difficilissimo: erano tutti molto validi, ognuno con una voce precisa e una costruzione impeccabile.
E non è affatto detto che un documentario debba durare 70 minuti per essere completo o incisivo. Alcuni film riescono a dire tutto in 20 o 25 minuti, trovando una forma essenziale che li rende ancora più potenti. I corti selezionati quest’anno lo dimostrano chiaramente: sono piccoli film perfetti, costruiti con grande consapevolezza, capaci di lasciare un segno profondo.
Formazione e sguardo etico: cosa offrono le Masterclass di Simon, Munzi e Azzali
Masterclass e formazione: qual è l’obiettivo formativo delle nuove masterclass di quest’anno che vedono partecipi figure come Claire Simon, Munzi e Azzali? E cosa sperate che i giovani documentaristi possano portare con sé da questo festival?
L’obiettivo delle masterclass è lavorare sulla responsabilità dello sguardo: ogni volta che filmi qualcuno compi una scelta etica e narrativa. Vogliamo offrire strumenti critici per capire come rappresentare persone e contesti senza semplificarli o sfruttarli, restituendo complessità e rispetto.
Munzi e il suo direttore della fotografia Azzali, approfondiranno proprio il conflitto tra realtà e finzione e il rapporto tra regista e protagonista. Uno degli aspetti più importanti nel documentario è creare un legame autentico, questo è ciò che rende il film vero e rispettoso della persona filmata.
La masterclass di Claire Simon invece seguirà la proiezione del suo film ispirato agli scritti di Annie Ernaux e sarà un’occasione per entrare nel suo metodo e nella sua sensibilità.
Speriamo che i giovani documentaristi portino con sé la capacità di osservare con empatia, di porsi domande e di guardare la realtà con attenzione e delicatezza: strumenti indispensabili per raccontare il mondo oggi. Il documentario diventa così uno strumento per leggere il reale, confrontarsi con i conflitti senza banalizzarli e ascoltare ciò che di solito resta ai margini.
E più in generale speriamo che tutto il festival — dai lungometraggi ai corti, dalle proiezioni alle masterclass — sia un’occasione per riflettere su cosa significa essere umani. Il bello del documentario è che, partendo dalla realtà, non vuole imporre l’opinione dell’autore, ma aprire uno spazio di possibilità. Se chi viene al festival esce arricchito come persona, allora abbiamo raggiunto il nostro obiettivo.