Con Una, il suo cortometraggio d’esordio — scritto, diretto e interpretato — Ludovica Clemente non si limita a raccontare una storia: mette in scena un’esperienza. La paura, il disagio e la sensazione di essere costantemente esposte a un sistema che non ascolta e non comprende, diventano materia narrativa, immagine, ritmo. Presentato al Rome Independent Film Festival, Una è un piccolo atto di resistenza: un tentativo di trasformare un’esperienza personale in un racconto collettivo, capace di risuonare nella voce silenziosa di tante donne.
È così che Ludovica racconta la storia e la nascita di questo primo progetto, condividendo paure, scelte e il coraggio che l’hanno portata fin qui.
Una: messa a nudo
Cosa ti ha ispirato a raccontare questa storia?
Direi che, purtroppo, più che ispirazione è stato uno scontro con la realtà, come sicuramente sai. Ho osservato con gli occhi, ma soprattutto con il cuore, e ho deciso di dare voce a una mia paura e a un mio disagio. In quel periodo avevo cambiato lavoro: prima facevo tutt’altro, poi lavoravo in uno studio legale vicino casa. Uscivo spesso tardissimo e tornavo a piedi, perché la distanza era breve. Proprio in quei giorni vivevo un disagio fortissimo. Era il periodo in cui stavo pensando di lasciare il lavoro per immergermi completamente in questo “pazzo” mondo del cinema.
Avevo tante idee per un primo corto, ma alla fine mi sono detta: racconto questo. Racconto ciò che vivo io e che vivono tante altre ragazze. E quale miglior modo di esordire, se non mettendomi a nudo? Infatti mi sono anche interpretata: volevo rappresentare esattamente ciò che provavo camminando. Come sai, esistono diversi tipi di violenza e la violenza non ha un genere. Io ho raccontato quella fisica e psicologica vissuta da una ragazza. Per me era assurdo che il mio compagno o i miei amici non avvertissero lo stesso pericolo. Anche i miei colleghi maschi uscivano tardi senza problemi. Io invece il problema ce l’avevo. Ogni volta che rivedo il corto rivedo esattamente il tragitto che facevo la notte tornando a casa. Ho anche scelto location che non fossero troppo riconoscibili come Roma, proprio per evocare un disagio universale, internazionale, che riguarda tutte le donne.
C’è una scena forte, quella nel tunnel, quando corri da sola e ti guardi indietro impaurita. È forse la più toccante. Mi ha colpito il fatto che tu abbia scritto, diretto e interpretato il corto. Perché questa scelta così esposta?
Per due ragioni. La prima è che si tratta del mio esordio: stavo entrando in un mondo nuovo. Sono diventata avvocato prestissimo, ma non era ciò che sognavo. Lasciando quel percorso, volevo mettermi completamente in gioco. La seconda ragione riguarda le donne: ho scritto il corto, l’ho diretto, e non avrei potuto non interpretarlo. Era un disagio reale, mio, e il modo più autentico per comunicarlo era esserci con il mio corpo, senza filtri. Non c’era molta recitazione.
La scena del tunnel, come dici tu, è una delle più importanti. L’abbiamo girata molte volte, anche perché la protagonista (cioè io) non è inseguita da nessuno se non dalle sue paure. Volevamo creare esattamente quel senso di claustrofobia: far credere che ci sia qualcuno, quando in realtà non c’è nessuno. L’unica cosa che la insegue sono i suoi pensieri intrusivi e una società che non comprende. Ho voluto fare questo corto perché credo che il cinema — lo è stato prima e lo sarà sempre — possa essere uno strumento intelligente per fotografare la realtà. Mi piacerebbe che un giorno mia figlia o i figli di mia figlia possano dire: “Mamma mia, che tempi terribili erano”, proprio come io penso oggi guardando alle limitazioni che avevano le donne un tempo.

I mostri non ballano
Molti film parlano di violenza sulle donne con toni espliciti. Il tuo corto invece fa una denuncia fortissima, ma velata. Perché hai scelto questa forma?
Perché credo che molte persone condividano questo disagio interiore che ci unisce. L’unione tra donne — e tra tutte le persone che vivono violenza, paura o incomprensione — avviene spesso nel silenzio. Io sono stata in silenzio per molto tempo. Avrei voluto diventare scrittrice e non l’ho fatto anche per questo motivo: ti educano al silenzio, perché se parli sei “scomoda”. E non vale solo per le donne. Mi sento vicina a chi resta in silenzio, e non credo affatto che siano persone deboli: parlare non è facile. Ho voluto dare voce a quel lungo periodo in cui io stessa non riuscivo a farlo, anche per vergogna. Una racconta la paura delle donne nel tornare a casa, ma senza dirlo apertamente: mette in scena ciò che proviamo dentro. Ed è rivolto a tutti, anche agli uomini. È un modo di sensibilizzare non attraverso parole già sentite, ma attraverso il cinema, cercando di far vivere allo spettatore quelle stesse sensazioni. E con te, mi pare di capire, ci siamo riusciti.
La scena finale, in cui la protagonista balla davanti a quei ragazzi che la guardano increduli, è un vero gesto di ribellione secondo me. Da dove nasce questa idea?
È un atto di ribellione totale, come hai detto tu. Il corto inizialmente doveva chiamarsi I mostri non ballano: quel “basso” significava “non sono io il mostro che sta ballando”. Non è un ballo seducente, è volutamente disturbante: quasi un modo per dire “il mostro non sono io, sei tu”.
Ci eravamo ispirati anche a quel movimento di ragazze che sui social, per difendersi da molestie, si fingevano “mostri”, facendo balli strani per intimidire gli aggressori. È un gesto di libertà: ballo da sola, e non sono io quella sbagliata.
E poi perché hai scelto di chiamarlo Una?
Una alla fine è nato perché io non volevo indicare nessuna donna in particolare, ma volevo che tutte le donne allo stesso tempo si rappresentassero. Una donna in cui non è una a caso e tutte alla fine ci rivediamo in quell’una.
Secondo te, in che modo il sistema educativo e la società alimentano queste paure nelle donne? E cosa si potrebbe fare per cambiarle?
Credo che il cambiamento debba iniziare dall’infanzia. Sono cresciuta con un padre che mi diceva: “Non uscire da sola la sera”. Lo fa ancora oggi. Ma se lo analizziamo insieme, questo pensiero è sbagliato: implica che una donna non possa essere libera di uscire. È una limitazione fortissima e nasce già da bambine. La violenza non ha genere, ma un passo fondamentale sarebbe introdurre nelle scuole dell’infanzia e nelle primarie un vero insegnamento sulla parità e sul rispetto. E parlare di più dei femminicidi e della violenza di genere: non è normale che sia diventata una notizia normale. La frase che apre il corto — “È normale correre la notte se sei donna” — l’ho ricevuta davvero. Non da uno psicologo, ma da un’altra persona. E mi ha scioccata. È un problema anche di linguaggio: le parole che scegliamo creano la realtà che accettiamo.

Ho guardato il mondo e sono scoppiata a piangere
C’è un regista o un film che ti hanno ispirato nella realizzazione del corto?
Mi sono avvicinata al cinema tardi e mi sono innamorata perdutamente di In the Mood for Love di Wong Kar-wai. Quando sono uscita dalla sala, ho guardato il mondo e sono scoppiata a piangere.
Dal punto di vista fotografico è stata la mia più grande ispirazione: cercavo luci al neon, colori accesi, atmosfere confuse. La fotografia l’ha curata Alen Parroni e con lui abbiamo lavorato per ottenere quel gelo, quella durezza. Poi ci sono Angès Varda e Věra Chytilová con Le Margheritine, uno dei film più radicali che abbia mai visto sulla ribellione femminile.
In futuro continuerai a esplorare tematiche simili?
Ora ho scritto un lungometraggio che affronta un’altra tematica sociale. Non riguarda il femminismo, ma un disagio che ho vissuto io stessa, legato a canoni italiani un po’ antiquati. È ambientato in una sola location, racconta uno scontro generazionale e riflette sulla falsa idea di libertà che molte famiglie portano ancora con sé, come se la Costituzione non fosse mai esistita. La tematica sociale ci sarà sempre. Voglio raccontare storie che hanno ombre, fragilità, ferite. Nel mio quaderno ho decine di idee: spero che, una alla volta, prendano vita.