Magic Farm è il secondo lungometraggio dell’artista Amalia Ulman. Presentato al Festival Internazionale di Berlino e successivamente al Sundance, il film è uscito nelle sale americane il 25 aprile 2025. Oggi è disponibile su Mubi.

Commedia dell’assurdo e cinema indie
Basso costo di produzione, alta libertà espressiva: siamo di fronte a un chiaro esempio di cinema indie. Magic Farm è una commedia assurda che racconta in modo improbabile una vicenda comunque verosimile.
Una troupe di documentaristi newyorchesi gira il mondo alla ricerca di piccole storie sottovalutate, assurde e divertenti. Un po’ come ha fatto per anni il canale Youtube Vice News.
Dopo aver raccontato la storia di esorcisti adolescenti boliviani, di ballerini messicani dagli stivali lunghi e prima di valutare un servizio sulle punture di ragno che provocano erezioni, la troupe si dirige in Argentina per documentare Super Carlitos, un cantante virale che si esibisce con le orecchie da coniglio.
Purtroppo San Cristobal, la piccola città nella provincia argentina che raggiungono, non è la città giusta, ma solo una delle tante San Cristobal che esistono in Sud America. La scout che aveva dato il via al viaggio ha perso la password di Facebook e con essa tutti i contatti: non si sa più dove andare. La missione sembra fallita, ma la realtà viene in soccorso ai documentaristi che decidono di inventare un’altra falsa tendenza, raccontandola come una nuova viralità da vendere in Occidente. Ci si inventa così la storia di una setta religiosa che canta e balla con un fiocco colorato da regali sulla testa perché si considerano e si celebrano come fossero dei doni che Dio ha mandato sulla Terra.

Coralità e colore
Come in tanto cinema di Wes Anderson la messa in scena risalta per l’utilizzo vivo dei colori degli ambienti e delle scene in generale. Erba verdissima, arredi dai colori sgargianti, abbigliamento vistoso ed eccentrico. Non ci sono sfumature, non ci sono colori autunnali: il film è come un gioco di plastica appena scartato.
Oltre alla colorazione, Amalia Ulman echeggia Wes Anderson anche nella coralità della storia. Il progetto della troupe si articola infatti attraverso le singole vicende che ogni membro porta avanti. Il film procede polifonicamente, senza nessun personaggio principale.
Chloè Sevigny, musa di tanto cinema indie americano, è il capo stressato della squadra, tanto poco autorevole quanto distratto e senza interessi. Le sta a cuore solo il rapporto con il marito produttore e la voglia di far quadrare la storia. Simon Rex, il marito produttore presente nelle prime scene, è invece preoccupato, più che del lavoro, di trovare una spina compatibile con il caricabatteria della sua sigaretta elettronica. Joe Appollonio, il rappresentante fluido del gruppo, vede nell’albergatore una latente omosessualità e si adopera con manovre delicate per farlo uscire dalla sua armatura. Alex Wolf è invece il playboy: si invaghisce di una paesana che sfoggia quasi con orgoglio una serie di sospette macchie sul corpo, la seduce e l’abbandona perché comunque non fa parte del suo mondo.
Amalia Ulman è Elena
Infine Elena, interpretata dalla stessa Amalia Ulman, l’unica della troupe a parlare spagnolo; quindi l’unica sulla carta capace di far comunicare il mondo occidentale mainstream con quella lontana periferia del Sud.
Elena potrebbe rappresentare dunque un ponte tra le due culture, tra il Nord e il Sud del mondo ma non vuole. Troppo impegnata a finire le riprese e troppo presa dalla condizione personale. Sta per diventare madre.
Dunque cinque personaggi con cinque possibili vie d’accesso alla nuova realtà da documentare. Vie d’accesso che però si fanno vicoli ciechi perché ognuno di loro è più interessato a se stesso che ad approfondire gli altri. La lente d’ingrandimento è rivolta verso la troupe e quello che sta intorno è solo strumentale. Questa scelta è consapevole? Sicuramente si. La regista ci vuole indicare chiaramente quanto vuoto e autoreferenziale sia lo sguardo occidentale verso il resto del mondo.

La realtà oltre i colori dell’assurdo
Dietro le surreali stranezze degli abitanti del luogo, oltre le rocambolesche avventure dei personaggi della troupe, fa capolino e diventa sempre più forte la vera realtà che minaccia quel mondo futile.
La gente tossisce, l’acqua da bere non esiste e nessuno beve quella del rubinetto altrimenti ci si ammala o come minimo si deve correre in bagno. Molte persone sono scomparse prematuramente. I casi di tumori sono in aumento. Ci sono malattie strane e degenerative. Dalla radio si sente di indagini che cercano di relazionare lo stato di salute del paese con l’utilizzo intensivo dei pesticidi nelle campagne. In una scena cult, Elena chiede un rimedio per le zanzare notturne e l’albergatore le presta un ddt prima di esserselo spruzzato direttamente sulle braccia.
Il nesso tra malattie e prodotti chimici è evidente, ma nessuno può o vuole metterci l’accento. La regista lo sa bene e lo indica chiaramente con la stessa forza espressiva con cui disegna lo sguardo dei personaggi. Il mondo occidentale si interessa di qualsiasi fatto o stranezza ma non vede i problemi autentici. Il vero servizio della troupe in quel posto è sotto gli occhi di tutti ma nessuno vuole vederlo.

Un film concettuale
Magic Farm è quindi un film drammatico con temi sociali o un film farsa con storie e toni strampalati e la parodia del giornalismo d’inchiesta?
Di certo Amalia Ulman ha voluto fare un film concettuale. La sua formazione di artista di installazione ha questo nel DNA: costruire per comunicare partendo dalla realtà più immediata. Una delle opere che le hanno dato visibilità, Excellences & Perfections, racconta una falsa storia costruita per mesi attraverso Instagram e manipolazioni fotografiche.
Amalia Ulman ci dice quindi che lo sguardo di certo Occidente, quello spesso più vicino alla cultura woke, è stato curioso ma vuoto. Più attento alla narrazione che alla comprensione dei fatti. Non raggiunge l’obiettivo, lambisce soltanto i veri problemi che sono l’inquinamento e la diseguaglianza sociale ed economica tra Primo e Terzo mondo. É autoreferenziale, comunica a se stesso solo quello che vuole sentir dire. Sbagliare la città di destinazione per non essersi posti il problema di dove si trovi realmente una determinata città è sintomo di una cultura superficiale, per cui tutto il resto del mondo è uguale e indifferenziato. Magic Farm è quindi una denuncia spietata al modo di guardare il mondo dell’Occidente.
Quanto il film è riuscito nell’intento? Didascalicamente appieno: il messaggio passa chiaro e fluido. Cinematograficamente a tratti: manca di qualsiasi approfondimento psicologico dei personaggi, sia per i newyorchesi sia per gli argentini, ma soprattutto mancano le sfumature e i coni d’ombra che rendono i film veramente interessanti.
Questa è un’opera concettuale; spiega benissimo ma manca di quell’empatia capace di coinvolgere oltre l’apparenza. Centra il bersaglio ma senza passione.