Vipera s. f. (dal latino vipera, prob. da vivipera o vivipara, “che partorisce i vivi”). Con questa definizione si apre il corto italiano Aspis, incentrato sull’omonimo rettile da quale prende il nome (la vipera Aspis). Il cortometraggio è attualmente in gara al festival Linea D’Ombra di Salerno, è stato prodotto da Hubris Pictures e dal regista Antonio Romagnoli, che siamo riusciti ad intervistare e col quale abbiamo sviluppato un interessante discorso riguardo la produzione ed il percorso artistico dietro la realizzazione del corto.
Di cosa parla Aspis
Nel mezzo di una natura incontaminata, libera da ogni traccia umana, una vipera si risveglia dal letargo. Come ogni anno, riprende il suo ciclo di vita senza ricordare quello precedente. Ma qualcosa cambia, e una nuova consapevolezza emerge. Come ne abbiamo parlato nella nostra recensione, Aspis è un racconto magnetico che intreccia in sé la poesia e la natura, la narrazione ed il documentario. Il risultato è un ritratto della vita della vipera e della natura dell’Appennino, ma con una radicale differenza: la vipera protagonista di Aspis è una creatura che s’interroga sul suo destino.
“Il Veleno è la mia vita”, questa infatti la maledizione del serpente che è costretto, contro la sua volontà, ad uccidere per sopravvivere. Il racconto non solo si presenta come un’esperienza estremamente immersiva, complice l’ottimo reparto tecnico che proietta lo spettatore nel mondo della vipera, ma anche come uno estremamente ricco di tematiche trattate, dalla solitudine all’amore materno, fino alla predestinazione. Proprio per la sua ricchezza di spunti, non è stato semplice selezionare le domande per la nostra intervista ad Antonio, essendo Aspis un cortometraggio sul quale si potrebbe dialogare per ore.

L’Intervista al regista Antonio Romagnoli
Aspis ribalta il concetto secondo cui gli animali non sarebbero in grado di pensare o provare sentimenti, e declina questo tema anche in una chiave religiosa, utilizzando come protagonista il serpente, l’animale per eccellenza più demonizzato dalla tradizione cattolica. La vipera protagonista afferma che il veleno è la sua vita, ma anche qualcosa che le è stato imposto da Dio e che non vorrebbe possedere. Qual è stato l’high concept, l’immagine o l’intuizione iniziale che ti ha portato allo sviluppo di questa idea? Da dove nasce la figura del predatore velenoso che si interroga sul proprio destino?
Ti rispondo partendo dal fatto che sono un grande amante dei serpenti da quando avevo circa 3-4 anni. Mia madre mi portò al rettilario del Bioparco di Roma e mi innamorai completamente delle forme, del modo di essere di questi animali straordinari. Perciò, quando ho poi iniziato a fare cinema, ho sempre desiderato poter fare un film sui serpenti, anche perché negli anni, tutti i film che vedevo sui serpenti (per lo meno quelli di finzione) erano sempre deludenti o appunto avevano questo pregresso cattolico del serpente come un animale demoniaco. In realtà l’idea era di raccontare la natura per quel che è, ovvero qualcosa che non ha una morale, però di farlo umanizzando la vipera, che ovviamente assume una morale nei confronti di questa cosa. Per questo motivo, la figura di Dio, contro la quale la vipera “s’inviperisce”, non è altro che la rappresentazione stessa della natura, contro la quale lei va. Quindi diciamo che la figura del predatore velenoso è un caso nella misura in cui, appunto, il serpente che più mi sembrava più indicato, anche esteticamente, in Italia, era la vipera Aspis.
Il corto adotta il punto di vista delle vipere, facendoci ascoltare le loro voci. Come è nata l’idea di sviluppare una lingua serpentesca e quali sono stati i punti di partenza nella sua creazione?
Questa cosa nasce dal fatto che, dopo aver scritto la sceneggiatura, il testo mi funzionava nel suo concetto ma il suono, secondo me, non ne restituiva la profondità e qualsiasi lingua abbia provato ad immaginare non riusciva a restituirmi quel che io volevo. Motivo per cui, nasce l’idea di inventare una neo-lingua, che doveva avere due tratti molto precisi: il primo era quello di andare contro il serpentese di Harry Potter, quella forma caricaturale fatta di sibili, il secondo, dirimente, di creare una lingua il più possibile antica, perciò i riferimenti diventavano il greco antico e l’elfico di Tolkien. Ti faccio un esempio: la parola veleno, che nel film è neuremoh, nasce dal fatto che il veleno dei serpenti è sia neurotossico che emotossico, quindi è semplicemente una crasi di questi due termini (neuro ed emos).
Uno degli aspetti più sorprendenti del corto è il fatto che le riprese delle vipere siano state realizzate interamente in natura, con animali veri e senza alcun ricorso alla CGI. Considerando l’imprevedibilità degli animali, com’è stato gestito il processo di scrittura? Avete prima elaborato una sceneggiatura e poi girato, aspettando che le vipere compissero azioni in linea con il copione, oppure avete raccolto il materiale sul campo partendo da un’idea generale, adattando poi il montaggio a ciò che siete riusciti a riprendere?
In realtà i serpenti, e le vipere in particolar modo, non sono animali così imprevedibili, anzi: sono così antichi ed ancestrali al punto da avere uno spettro d’azione molto limitato, per cui in realtà diventano molto prevedibili e questo è stato il motivo per cui la sceneggiatura è rimasta sostanzialmente invariata, tranne dei piccoli cambiamenti che sono stati effettuati in fase di montaggio, ma siamo andati sul luogo con una sceneggiatura finita ed un’idea chiara di che cosa volessimo fare. Ovviamente sul set era presente un erpetologo, un esperto che gestiva gli animali e metteva in sicurezza tutta la troupe, ma detto ciò non è per nulla complesso gestire un animale del genere, sarebbe molto più difficile gestire un grosso mammifero. Anzi, siamo riusciti ad avere un’immagine molto più cinematografica, potendoci avvicinare molto all’animale, quindi non usando ottiche lunghe ma delle anamorfiche abbastanza macro per stare veramente a contatto con l’animale ed incorniciarlo con l’ambiente circostante, piuttosto che isolarlo.

Quanto è durata la totalità delle riprese?
Le riprese sono durate in totale due settimane. Questo perché abbiamo girato una prima settimana durante l’inverno, ovvero la parte iniziale del corto in cui la vipera è in letargo, e quindi abbiamo filmato solo i paesaggi, e poi un’altra settimana a giugno, per la parte con presenti gli animali. Ovviamente durante la parte invernale abbiamo anche filmato alcuni ambienti più a bassa quota che facessero percepire l’autunno, questo perché non potevamo fare un altro turno di riprese ad autunno solo per fare quelle che poi sarebbero state pochissime inquadrature.
La musica svolge un ruolo fondamentale nell’immersione nel mondo naturalistico delle Appennino. Il canto corale si integra perfettamente con l’ambientazione montana e con la dimensione “spirituale” della vipera. Come siete arrivati alla scelta di questa tipologia musicale per il corto?
Con Francesco Sottile, il compositore, abbiamo lavorato molti mesi sul cercare di restituire tutta l’atmosfera che era già impostata sul resto del film. Siamo partiti dall’idea per cui ogni stagione dell’animale dovesse avere uno strumento musicale dedicato, per poi in realtà arrivare all’essenza della cosa e quindi della voce. L’uso della voce è lo strumento più essenziale che abbiamo per produrre la musica e dei suoni, quindi da lì l’idea di fare la colonna sonora essenzialmente ed esclusivamente con coristi, che tra l’altro cantano dei libretti in latino scritti da me, libretti che aggiungono del sottotesto al film, nonostante non sia sottotitolato e sia volutamente incomprensibile al pubblico.
Chiudiamo con una domanda dal tono più filosofico. Il corto mostra come la vipera, pur essendo un animale “nato per uccidere”, trovi la possibilità di ribellarsi al proprio destino e di sperimentare un sentimento di amore materno. In questa prospettiva, pensi che anche l’essere umano, che secondo la tradizione religiosa è nato per amare, potrà un giorno davvero riuscire a compiere ciò per cui è stato creato?
Qui la risposta diventa molto complessa per me (ride). Mi affiderei a menti molto migliori della mia per rispondere, quindi direi, citando Nietzsche, che non credo che l’essere umano abbia un destino da compiere. Detto ciò, quello che mi interessava era mostrare la visione a tratti “leopardiana” di questa natura, che sa essere madre e matrigna cattiva allo stesso tempo e non ha nessun alcun tipo di cura per noi, ma solo per il suo continuo divenire, questa sorta di continuità eterna di creazione e distruzione.
