Nei Diari di mio padre, il primo lungometraggio documentario del regista Ado Hasanovic, il cinema si rivela come un testimone storico primario. Tutto ha inizio con un diario nascosto per anni e con una troupe televisiva amatoriale creata dal padre del regista, Bekir e dai suoi amici che tra il 1992 e il 1995 realizzarono videotape mostrando cosa stava accadendo a Srebrenica. Familiare e dolorosamente universale I diari di mio padre, è oggi una visione necessaria. La guerra si abbatte sulle persone come un’onda, per poi ritrarsi e travolgere di nuovo, queste le parole usate dal critico Flavio De Bernardinis, durante l’incontro con l’autore, al termine della proiezione nella quarta giornata dell’Euro Balkan Film Festival.
Noi abbiamo incontrato Ado Hasanovic prima della proiezione, ripercorrendo con lui le tappe del suo viaggio nella memoria paterna tra diari scritti e filmati.
La lettura dei diari
Nel tuo film il concetto di diario si sdoppia, da un lato c’è il diario memoriale scritto da tuo padre Bekir, che attraverso la tua lettura si trasforma in voce narrante e su un binario parallelo c’è il diario filmico, il repertorio di videotape realizzati da tuo padre e dai suoi amici, come hai scovato i diari e in che modo hai deciso di rileggerli per dare vita al tuo primo lungometraggio documentario?
Tutto è iniziato nel 2011 quando sono tornato nel mio villaggio a Glogova nel comune di Bratunac, in Bosnia-Erzegovina. Mia madre mi ha detto di nascondere i diari perché mio padre voleva distruggerli e bruciarli. Ho capito subito che erano molto importanti perché scritti tra il 1992 e il 1995, tre anni fondamentali per la storia del mio paese.
Mio padre ha iniziato a scrivere i diari due mesi dopo lo scoppio della guerra in Bosnia-Erzegovina, nel momento in cui il conflitto arrivò nella mia città e morì suo fratello, il 7 luglio 1992. Penso che non esista in Bosnia-Erzegovina, una persona che abbia scritto un diario ogni giorno in quel preciso momento storico. La mia prima lettura dei diari è stata sofferta, sentivo di violare in alcuni momenti la sua intimità.
Ho iniziato a pensare di poter fare questo film quando un produttore di ARTE France, mio ex professore Thierry Garrel alla Sarajevo Film Academy, mi disse Non puoi diventare un regista se non fai un film su tuo padre. Nel 2013 mi sono trasferito Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e ho iniziato a fare i conti con il mio passato. Mio padre ha avuto un infarto mentre io ero lontano e questo mi ha spinto a tornare a casa e a filmare. Pensavo che sarebbe stato semplice riprendere mio padre, per i suoi trascorsi cinematografici, ma non è stato esattamente così.
Tre cameramen in guerra

A proposito del passato di videoamatore di tuo padre, uno degli aspetti più interessanti del film è proprio il racconto doloroso e allo stesso tempo scanzonato dei VHS girati da Bekir, Izet detto Ben, Nedzad detto Boys. Il tuo film racconta anche del passaggio di testimone alla regia che c’è stato tra te e tuo padre, che si è trasformato anche in un più doloroso passaggio di testimonianza storica, in che modo ti ha guidato verso la tua passione?
Mio padre e i suoi amici volevano fare un film ma non sapevano il titolo, nessuno di loro aveva un’esperienza cinematografica o giornalistica, hanno usato la Mdp per sopravvivere e passare il tempo. Ho realizzato troppo tardi che la mia passione per la regia è partita da lui. Un anno dopo la fine della guerra, mio padre ha portato a casa un’altra macchina da presa VHS.
Tuo padre ha continuato a filmare anche dopo la guerra? Avrebbe voluto coltivare il sogno della regia?
Lui aveva questa passione ma ha continuato a realizzare solamente home video, mi ha ispirato molto. Ho iniziato a riprendere vedendo lui. Osservando mio padre e ciò che ha realizzato con la sua troupe, mi ha particolarmente affascinato la figura del Cameraman, braccio destro del regista, la persona che realizza un’inquadratura. Ho capito da lui che ciò che viene inquadrato è la cosa più importante.
Mio padre, fuori e dentro l’inquadratura
Il concetto di inquadratura torna spesso nel film, i membri della troupe scherzano tra di loro su chi deve entrare nell’inquadratura, si alternano dietro la Mdp affinché tutti possano essere ripresi ed è interessante come il ruolo di tuo padre cambi tra le sue riprese del passato dove vuole mostrarsi e il presente filmato da te in cui vorrebbe nascondersi
Questo aspetto mi ha molto stupito, il film è costruito su tre livelli, ci sono i materiali di repertorio, i diari che sono diventati a tutti gli effetti una sorta di sceneggiatura e infine ci sono le mie riprese nel presente che fanno da collante agli altri materiali. È vero che tra la troupe è molto frequente il passaggio della Mdp perché tutti volevano entrare nell’inquadratura. Il materiale che ho visionato, circa nove ore di girato, in parte presente nel film è diventata una testimonianza fondamentale, soltanto il dieci per cento delle persone riprese sono sopravvissute.
Ancora oggi molti corpi non sono stati trovati, tra cui quello di mio nonno. Nel realizzare questo film, ho cercato di trasmettere la passione di mio padre che riprendeva e scriveva per sopravvivere, per distrarsi dalla guerra. È importante sottolineare che non ho realizzato questo film da solo, il film è prodotto da Palomar, Antonio Badalamenti ha creato la struttura, ci sono tre montatrici (Esmeralda Calabria, Elisabetta Abrami e Desideria Rayner) e due co-sceneggiatori (Armando Maria Trotta e Anna Zagaglia). Il film ha dunque sei autori. Per realizzare un film così intimo e personale è necessario avere intorno professionisti con una grande sensibilità. Insieme abbiamo visionato i materiali e selezionato le pagine di diario.

Questo film per me è stato una terapia, la guerra ti distrugge, mio padre diceva “Siamo tornati a vivere nei luoghi che abbiamo difeso, ma non come dovremmo vivere, non abbiamo ricevuto un giusto risarcimento”.
Il Silver Frame Festival a Srebrenica
Tra i tuoi progetti c’è l’organizzazione del Silver Frame Festival a Srebrenica
È importante parlare di memoria ma è anche importante parlare del presente. Mio padre mi diceva spesso che il compito di noi giovani serbi e bosniaci sarebbe stato quello di creare una comunità unità. Creare il Silver Frame Festival è stato un modo per me di onorare la memoria di mio padre. Abbiamo deciso di proiettare film che parlano di amore, amicizia, ambiente e abbiamo diversi selezionatori che vengono dai festival internazionali più importanti (Sundance, Venezia, Cannes). Si crea una magia durante il festival, le persone non parlano di guerra, il pubblico per quel breve periodo non è soffocato dal passato. È un progetto per avvicinare le persone davanti a uno schermo.
Il tuo film parla di genocidio attraverso lo sguardo di chi l’ha vissuto in prima persona, noi oggi siamo testimoni distanti di conflitti internazionali e continuiamo a mettere in discussione le immagini di morte e distruzione che quotidianamente ci scorrono davanti agli occhi
Il genocidio di Srebrenica è stato riconosciuto come tale nel 2007, dodici anni dopo il massacro. Non c’erano testimonianze visive o mediatiche estemporanee di quello che stava accadendo nel 1992 a Srebrenica. Noi oggi abbiamo innumerevoli immagini, testimonianze di guerre e genocidi ma la cosa fondamentale è leggere, vedere, viaggiare, pensare con la nostra testa. Vedere con i nostri occhi il mondo che ci circonda, senza farsi trascinare dalla macchina di propaganda messa in moto dalla guerra.
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