In Chinatown, l’acqua non purifica: corrompe.
Sotto la superficie limpida di Los Angeles scorre un flusso torbido di menzogne, potere e avidità. È il simbolo perfetto di un mondo che ha smarrito ogni innocenza: ciò che dovrebbe dare vita diventa strumento di dominio, specchio di una civiltà in putrefazione. Roman Polanski firma il più feroce dei noir: un’indagine sull’inganno come condizione naturale, una tragedia morale travestita da detective story.
Nel 50º anniversario dall’ingresso nelle sale italiane, Chinatown (1974) torna al cinema.
Ambientato nella Los Angeles degli anni Trenta — quando la sete di progresso trasformava l’acqua in moneta politica — il film scava nel cuore del sogno americano e ne mostra la sorgente avvelenata.
Come i pozzi che si prosciugano nel deserto, la verità, in Chinatown, emerge solo quando è troppo tardi.
Le ombre dell’acqua
Tutto comincia con una donna e una bugia, come in ogni noir che si rispetti. Roman Polanski ci trascina in una Los Angeles calda, arida, dilaniata dalla siccità.
Jake Gittes, detto J.J., detective privato elegante e disilluso, accetta quello che all’ apparenza sembra un caso banale, un adulterio da pedinare. In men che non si dica, le indagini condurranno però l’uomo all’interno di un’oscura parabola discendete, costringendolo a confrontarsi con il male puro.
Gittes, interpretato da un eccezionale Jack Nicholson, si ritrova sommerso in una rete di potere, corruzione e morte che ha al centro la cosa più semplice e indispensabile di tutte: l’acqua, simbolo di vita, che a L.A. diventa subdolo strumento di dominio.
Il complotto di Chinatown non nasce solo dalla fantasia di Polanski o dalla penna di Robert Towne, che vinse l’Oscar proprio grazie a questa sceneggiatura. È figlio diretto di una ferita reale: quella che segnò la Los Angeles dei primi decenni del Novecento, quando la città, assetata di espansione, dirottò le acque del fiume Owens per alimentare la propria crescita.
L’ingegnere William Mulholland — figura chiave nella gestione urbanistica della città— costruì un sistema titanico di acquedotti che fece sorgere dal deserto una faraonica metropoli. Solo che, nel farlo, prosciugò intere comunità agricole, cancellando vite e terre in nome del progresso. Le “guerre dell’acqua” della California — fatte di corruzione, espropri, sabotaggi e perfino attentati — divennero uno dei capitoli più oscuri della storia statunitense.
Polanski e Towne, pur non citandoli esplicitamente, ne assorbirono lo spirito: in Chinatown, quell’acqua rubata è il peccato originale di una civiltà che ha barattato la propria innocenza con il potere.

L’ingegnere William Mulholland
Chinatown, un fiume di corruzione
Ogni goccia che scorre nelle condotte di Chinatown ha un prezzo. Un prezzo altissimo.
L’acqua di Polanski scorre dove qualcuno decide che debba scorrere, irriga i campi dei potenti e lascia a secco il resto del mondo, diventando metafora perfetta del potere.
Jake Gittes — detective noir per eccellenza, che mescola charme, ironia e disincanto — crede di essere il padrone del gioco, il più furbo e scaltro di tutti, ma si ritrova intrappolato in una spirale di inganni più grande di lui. Come ogni uomo moderno che tenta di fare la cosa giusta in un mondo le cui fondamenta sono già marcite.
La Los Angeles che vediamo non è un semplice luogo: è un miraggio, una città che cresce sulle menzogne come un’oasi artificiale nel deserto. I canali d’irrigazione diventano sepolcri d’acqua, i campi veri e propri campi di battaglia.
Ma può esistere un regno senza re? Ovviamente no. L’imperatore di Los Angeles si chiama Noah Cross: sulla carta magnate dell’industria idrica, in realtà incarnazione stessa del male. E no, non è un’esagerazione.
L’avidità di Cross di possedere l’incontrollabile — l’acqua, la terra, perfino la vita — si trasforma in una condanna collettiva: non c’è futuro per una società i cui basamenti sono corrosi dalle termiti della corruzione.
E sarà lui stesso a ricordarcelo:
Jake Gittes: “What could you buy that you can’t already afford?”
Noah Cross: “The future, Mr. Gittes! The future.”
Nessuna speranza, nessun futuro.

Una torbida genesi
“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.”
(Genesi, 1:1-2)
A Los Angeles non si vedono più né l’acqua né Dio. Anzi, a dirla tutta, Dio è morto, e ad averlo ucciso è stato Noah Cross.
Per comprendere fino in fondo la mostruosità dell’antagonista di Polanski, occorre partire dal suo nome e dal suo simbolismo. “Noah Cross” si compone di due elementi fortemente biblici: Noah, cioè Noè — il patriarca incaricato da Dio di costruire l’arca e salvare la vita dalla furia del diluvio — e Cross, la croce, simbolo del sacrificio e della redenzione.
Polanski e Towne rovesciano completamente l’archetipo: il Noè che un tempo aveva salvato il mondo dalle acque diventa qui un patriarca corrotto, che usa proprio la forza dell’acqua per piegare e sottomettere il suo popolo.
La croce non è più segno di salvezza, ma di dominio: due linee che si incrociano, un punto d’incontro ambiguo dove due direzioni si fondono — dove il bene e il male, il divino e l’umano, si confondono fino a diventare indistinguibili.
Questo dualismo biblico trova il suo riflesso nella figura della figlia di Cross, Evelyn Cross Mulwray — una meravigliosa Faye Dunaway — anti-femme fatale per eccellenza, vittima tra le vittime e incarnazione perfetta dell’ambiguità polanskiana.
Evelyn richiama Eve, Eva, e dunque il peccato originale, di cui tuttavia non è colpevole: ne è, piuttosto, martire inerme. Cross perpetua l’idea del dualismo che diventa unione forzata; Mulwray, infine, rimanda all’incompiuto, al “quasi”, a ciò che è ma non può mai essere pienamente.
Il nome di Eva è un rimando inevitabile all’Eden, anch’esso evocato in Chinatown come un luogo perduto, paradiso profanato. Polanski costruisce così la sua genesi, dove il peccato non è l’origine, ma la condizione stessa dell’esistenza.

Il regista Roman Polanski in una scena del film
Chinatown, l’Eden prosciugato
E dove si trova, questo Eden perduto? Davanti ai nostri occhi: Chinatown stessa, o meglio, il suo contrario.
Los Angeles diventa l’anti-Eden per eccellenza, emblema di una siccità non solo fisica, ma morale. Se il giardino biblico era simbolo di prosperità e abbondanza, qui tutto è corrotto, esausto, ridotto a sabbia. Noah ed Evelyn — legati da un vincolo di sangue forse ancor più orribile di quanto sembri — incarnano rispettivamente il carnefice e la vittima di questa riscrittura blasfema della Genesi.
Il loro Eden è un deserto artificiale, un luogo talmente contaminato da essere riuscito non solo a prosciugare l’acqua del diluvio universale, ma a pretendere, insaziabile, che ne cada ancora. E ancora. E ancora.
È una siccità radicale quella che affligge la Città degli Angeli — ironia della sorte — e che non potrà mai essere saziata. La terra è arida, le persone sono aride, la società stessa lo è. La voracità di prosciugare e la brama di reclamare sempre di più, fino a dissetarsi di sangue, sono il motore profondo di questo inferno lucente.
Il peccato non è più un atto, ma una condizione: interiorizzato, normalizzato, divenuto parte costitutiva della città.
E in questo inferno terreno, chiunque tenti di sfuggire alla propria personale siccità esistenziale, viene travolto da quell’acqua che ormai è tutto tranne che salvifica.
Chinatown: two things at once
Nel torrido abisso costruito da Polanski, nulla è davvero come appare. Chinatown vive e respira nel segno del doppio: un perenne oscillare tra opposti, tra secco e liquido, luce e tenebra, apparenza e verità.
Da un lato la siccità che opprime Los Angeles, dall’altro le valli lontane che vengono misteriosamente allagate “da non si sa chi, per non si sa che scopo”. Tutto è doppio, tutto è sdoppiato.
Così i personaggi: la falsa moglie Mulwray che dà inizio alle disavventure di Gittes; l’ingegner Mulwray stesso, genero e socio del suo persecutore; gli ex colleghi di J.J., poliziotti e criminali insieme; e infine Evelyn e Noah, padre e figlia, carnefice e vittima, legati da un orrore che dissolve ogni confine morale.
Ma il doppio si annida anche nel linguaggio — nel modo stesso in cui il mondo comunica e fraintende.
Emblematica è la scena in cui il giardiniere cinese dei Mulwray pronuncia la parola “grass” (erba), che Gittes interpreta come “glass” (vetro). Un errore di pronuncia che si trasforma in rivelazione: la verità emerge proprio dallo scarto, dal malinteso, dal fraintendimento.
È l’equivoco linguistico a guidare il detective verso la comprensione, come se Polanski volesse suggerire che la verità non risiede mai nel significato, ma nella sua deformazione.
In Chinatown, persino le parole diventano corrotte, infide, incapaci di dire il vero. La lingua, come l’acqua, scorre e si contorce, rifrangendo la realtà invece di restituirla.
La città stessa si fa quindi teatro a due palchi: quello di facciata, luccicante e ingannevole, e quello nascosto, dove si consuma la verità.
La fluidità diventa così principio narrativo e ontologico: le acque torbide in cui i protagonisti sono immersi rappresentano la loro stessa sostanza vitale, la loro condanna. L’acqua cambia, si adatta, prende la forma di ciò che la contiene — e i personaggi di Chinatown non sono diversi. Ambigui, meschini, corrotti, sono il riflesso del loro stesso contenitore: una Los Angeles marcia fino al midollo.
Perché ciò che nasce dal sangue, solo sangue può esigere.

J.J. Gittes, l’idiota
L’unico personaggio che — paradossalmente, vista la camaleontica professione che esercita — rimane sempre fedele a sé stesso e, in fondo, anche a noi spettatori, è James “J.J.” Gittes.
La sola vera ambiguità che lo riguarda è racchiusa, incredibile ma vero, nel suo stesso nome. Tralasciando l’alternanza tra James e J.J., concentriamoci sul cognome: Gittes non significa nulla di per sé, eppure c’è qualcuno che, per tutto il film, lo pronuncia in modo storpiato, omettendo la “e”.
“Mr. Gitts”, così lo chiama Noah Cross.
In inglese “git” è un insulto, significa “sciocco”, “sgradevole”, “idiota”. E Cross, che nulla lascia al caso, sbaglia di proposito: lo fa per deriderlo, ma anche per svelare una verità che il detective stesso ignora.
Perché sì, Gittes è un idiota. Ma non nel senso comune del termine. L’etimologia ci viene in aiuto: idiota deriva dal latino idiōta, “ignorante”, ma ancor prima dal greco ἰδιώτης, che indicava il “privato cittadino”, colui che vive chiuso nel proprio ambito, estraneo alle questioni pubbliche.
Ecco la condanna di Gittes.
È un investigatore “privato”: la sua specializzazione, la sua ossessione per il dettaglio, diventa la sua cecità più grande. Si muove con abilità chirurgica nelle pieghe intime delle persone, ma non coglie il disegno più ampio, politico e sistemico, che le contiene e le divora.
Gittes continua a indagare come se bastasse una prova o una confessione per redimere il caos, ma Chinatown non è un enigma da risolvere: è un inferno da riconoscere.
Fallisce perché guarda troppo da vicino, e non abbastanza dall’alto. La sua cecità non è mancanza di acume, ma eccesso di attenzione: il paradosso di chi, vedendo troppo, smette di vedere davvero. Egli è, dunque, un ottimo idiota — il più brillante di tutti — e proprio per questo è destinato alla sconfitta.
L’opera di Polanski diventa così una tragedia assoluta, dove la Genesi si intreccia all’epica greca, e l’uomo, accecato dalla propria razionalità, precipita nell’abisso del mondo che ha contribuito a costruire.

Chinatown: la prigione dello sguardo
In fin dei conti, Chinatown non racconta soltanto una storia di corruzione, ma il dramma di un uomo che crede di poter comprendere — e quindi cambiare — il mondo, senza accorgersi di esserne già parte. Jake Gittes, con il suo sguardo lucido e ossessivo, incarna il detective come figura del sapere: l’uomo che osserva e collega, convinto che la verità, una volta svelata, possa redimere la realtà.
Ma in un universo come quello di Polanski, la conoscenza non salva: contamina.
Più Gittes indaga, più la rete si stringe. Ogni indizio scoperto diventa parte del meccanismo che intende smascherare, ogni rivelazione un ulteriore passo dentro la macchina del potere. È una figura foucaultiana per eccellenza: non un oppositore del sistema, ma un corpo e una mente intrappolati nel suo linguaggio.
Come scriveva Michel Foucault:
“Il potere non ha volto né centro: è una corrente invisibile che modella gesti, parole e desideri.”
E in Chinatown, l’acqua ne è il perfetto equivalente fisico — scorre in silenzio, nutre e corrompe, non appartiene a nessuno, ma tutto esiste grazie al suo movimento.
Gittes è vittima dell’illusione secondo cui osservare significhi comprendere, e comprendere significhi liberarsi. Ma la visione, in Polanski come in Foucault, non redime: controlla. È la forma più elegante di prigionia.
Non è quindi Gittes a inseguire la verità, bensì è la verità stessa, manipolata dal potere, a trascinarlo sempre più a fondo.
Quando Gittes giunge infine al termine del suo percorso, scopre che non c’è via d’uscita: solo un cerchio che si richiude su sé stesso, un riflesso che si moltiplica come la città che lo imprigiona — Chinatown, luogo e simbolo di un eterno ritorno dell’inganno.
Il potere, come l’acqua, non si arresta: filtra, rinasce, si rigenera. E Jake Gittes, come ogni individuo moderno, scopre di non esserne il nemico, ma l’estensione naturale.
La sua sconfitta non è personale, ma cosmica: la consapevolezza che non esiste un “fuori” dal potere, perché il potere è la sostanza stessa del mondo, il fluido che ci tiene a galla e ci trascina a fondo.
Per questo il film si chiude con una delle frasi più disperate della storia del cinema:
“Forget it, Jake. It’s Chinatown.”
È la constatazione definitiva che non c’è più nulla da capire, né da salvare. La verità non libera, l’acqua non purifica, e la conoscenza — anziché dissipare l’oscurità — la rende soltanto più nitida.