In concorso all’Euro Balkan Film Festival e già passato alla Berlinale 2024, Arcadia è l’ultimo film del regista greco Yorgos Zois. Una storia di amore, perdita e accettazione ambientata in un mondo dove non sono i fantasmi a perseguitare i vivi, ma viceversa. È questa l’intuizione alla base di un film perennemente sospeso tra dramma e cinema di genere, realtà e soprannaturale. Un mix indubbiamente affascinante, capace di regalare immagini potenti ed evocative, ma non sempre gestito dal regista nel migliore dei modi.
Arcadia: il richiamo del destino
Un uomo, Yannis (Vangelis Mourikis), ex dottore con problemi di dipendenza, viene chiamato in una piccola cittadina costiera per identificare il corpo della vittima di un grave incidente stradale. Con lui c’è una donna, Katerina (Angeliki Papoulia), forse collegata proprio a quel corpo. Perché la persona che giace in quell’obitorio altri non è che la moglie di Yannis, arrivata qualche giorno prima in quel paese con il suo amante. Una fuga d’amore conclusasi tragicamente e destinata a pesare come un macigno sull’uomo, tormentato da domande, sensi di colpa e il ricordo di una donna impossibile da lasciare andare.
Questi fantasmi!
Si colloca su un confine sottile, Arcadia. In un terreno rarefatto dove dramma e genere, tragedia e fantastico paiono convivere tra loro, mischiandosi senza però mai compenetrarsi davvero. Sono fantasmi particolari, del resto, quelli messi in scena da Yorgos Zois. Entità a metà strada tra allegoria e racconto fantastico, esperienza onirica ed esplicita messa nella forma di un’elaborazione del lutto da conquistare a fatica.
Tra Solaris(i morti ricordano solo quello che i vivi sanno già di loro, quasi come se fossero proiezioni della loro mente) e certo cinema “contemplativo” legato al racconto di fantasmi (da Sono la bella creatura che vive in questa casa a Storia di un fantasma; con l’eccezione che sono i morti, qui, a volersi liberare una volta per tutte da vivi incapaci di fare a meno di loro), Arcadiadà così vita a un mondo dove il senso di colpa è allo stesso tempo simbolico e letterale, una terra di mezzo la cui tensione tra estremi è il pregio e insieme il difetto principale del film.
Simboli e pregiudizi
Se il tema dei ritornanti contribuisce infatti a dare a questa storia di perdita, senso di colpa e perdono un tono onirico e surreale (le sequenze legate al lynchano locale che dà il titolo al film), è anche vero che il lungo di Zois rischia di non andare molto oltre la sua allegoria letterale, come se, rifiutando i codici del genere puro, non potesse far altro che affidarsi al suo simbolismo insistito e per certi versi elementare.
A uscirne è così un’opera indubbiamente affascinante, che guarda, dalla messa in scena ai tempi dilatati, fino ai movimenti stessi della macchina da presa, esplicitamente alle forme di certo cinema d’autore (il primo Lanthimos e la new wave greca in generale), riuscendo persino a emozionare col suo stile sognante e muscolare a un tempo, ma che non sa utilizzare la sua trovata fantastica in maniera realmente originale, senza i pregiudizi verso un genere e un linguaggio che pare non conoscere o apprezzare fino in fondo.