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Perché la distopia cinematografica è cruciale nel 2025?

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Il cinema distopico è sempre stato categorizzato come un genere fantascientifico, lontano dalla nostra realtà odierna. Ma ciò che vediamo può davvero essere solo frutto della nostra mente? Cosa provoca l’idea? Si tratta davvero di mera fantasia? Questo tipo di narrazione è la forma artistica delle nostre paure politiche e sociali più profonde, mosse dall’urgenza di trasformare la previsione in profezia. Le stesse previsioni, che oggi non trovano dibattito esclusivamente nella sfera artistica, bensì vivono nella realtà odierna. Mentre i governi dibattono sulle nuove leggi basate sul controllo digitale, la realtà sembra disperdersi nel caos mediatico. I vecchi incubi di cui parlava George Orwell sembrano tornare attuali. Ma non in veste di cinema, bensì in veste tangibile.

Viviamo in un’epoca in cui il confine tra naturale e artificiale dipende ormai solo dalla percezione individuale.  Spesso non sappiamo più neanche cosa stiamo guardando, se si tratta della realtà oppure della rappresentazione di un futuro prossimo visionato nella mente dell’autore.

Dalla fabbrica alla voce repressa

Ci troviamo nel 1927, quando Fritz Lang mise in scena il primo grande shock distopico: Metropolis. Una distopia neanche troppo lontana dalla realtà, rappresentata attraverso l’ansia della civiltà industriale. La divisione è brutale. Da un lato troviamo il “cervello”, dunque il dirigente della società, mentre dall’altro le “mani”, gli operai schiavizzati dalla macchina. La critica veniva mossa da una lotta di classe che dominava il primo novecento.

La città di Metropolis

La tematica della repressione fisica e della disumanizzazione si è poi evoluta nel corso del secolo. Ne è un esempio l’opera di Esteban Sapir. La Antena (2007) funge da un vero e proprio ponte concettuale brillante.

“C’era una volta una città senza voce. Qualcuno aveva tolto la voce a tutti i suoi abitanti. Passarono molti, molti anni e nessuno sembrava infastidito dal silenzio.”

Sapir utilizza l’estetica del cinema muto tedesco per creare una città a cui è stata rubata la voce da un monopolio mediatico che si fa chiamare Mr. Tv. La voce rappresenta, nel vero senso della parola l’unica arma di espressione, l’arma di resistenza. Il film suggerisce dunque che ancor prima di controllare i corpi e le menti, il potere cerchi di controllare l’informazione e le parole che potrebbero uscire dai cittadini. Manipolandoli attraverso i contenuti audiovisivi da lui scelti. Rendendo dunque tutti i cittadini passivi dinanzi a questa iniziazione.

Arancia meccanica (1971): distopia provocatoria e riflessione sulla violenza e il controllo sociale.

La mente condizionata e il trionfo del capitale

Dopo la guerra fredda, la paura e di conseguenza l’attenzione si sposta sul controllo del pensiero e sul potere invisibile del capitale. A raccontarci il controllo della mente è il cult movie Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick. Il quale decide di spostare la critica sul condizionamento psicologico imposto dallo stato per reprimere il libero arbitrio del singolo. Il film oltre a rappresentare una distopia, vuole far riflettere lo spettatore, creando così un dibattito etico.  È dunque meglio un individuo malvagio ma libero di compiere le proprie decisioni oppure un cittadino buono per costrizione statale?

L’apice viene poi raggiunto dal cyberpunk, attraverso il racconto della corporatocrazia e Blade Runner (1982) ne è un chiaro esempio. Ridley Scott ci mostra un futuro in cui lo stato è sostituito da corporazioni onnipotente come la Tyrell. Delle realtà in grado di detenere il potere sulla vita e sull’ambiente circostante. La distopia non vi è più un totalitarismo politico, bensì economico. Un luogo in cui la schiavitù è genetica oppure tecnologica, proprio come poi esplora Gattaca nel 1997. Si tratta dunque di un sistema in cui le decisioni vengono guidate dal profitto aziendale a discapito del benessere sociale e dei diritti umanitari. Ci troviamo dunque dinanzi ad una totale disumanizzazione, in un universo dove ognuno diviene un numero.

Un’immagine di Blade runner rimasta nell’immaginario

La distopia dell’ultimo secolo: l’iper-controllo invisibile

Se la distopia parte dalla paura, quale nuovo timore si è aggiunto negli ultimi anni?  Il timore del controllo, della perdita della nostra privacy, del pensiero critico e dell’identità.  Tutte paure che come abbiamo visionato, in qualche modo già iniziavano ad attingere. Il nemico non è più solo la singola corporazione oppure lo stato, bensì gli algoritmi. L’oppressione non è violenta, si basa infatti sulla prevenzione deterministica. Tale controllo può dunque portare a molteplici scenari di cinema distopico; uno di essi (quello comunemente più visibile) riguarda la discriminazione sociale a causa dell’algoritmo.

“Non posso avere un 2.6 al mio matrimonio”

L’esempio più calzante per spiegare tale distopia è il primo episodio della terza stagione di Black Mirror: Caduta Libera (2016). Il focus è sul punteggio sociale assegnato dalle persone online. Un universo in cui le autorità non hanno bisogno di prigioni fisiche, bensì usufruiscono di quelle mentali. L’algoritmo è in grado di abbassare il voto, di escludere un soggetto da un tipo di alloggio, lavoro e servizio. I nostri stessi dati divengono  i nostri nemici, i quali sono in grado di creare una stratificazione sociale inattaccabile, un controllo che deriva dal consenso e della paura di essere declassato. La violenza non è fisica, bensì psicologica.

La paura di sbagliare e di risultare perfetto dinanzi agli altri diventa costante, così come il reperimento dei propri sentimenti. L’autenticità viene cancellata e l’unica cosa che conta è l’opinione che gli altri hanno riguardo un sistema di moralità creata sulla base dell’algoritmo. Una forma di controllo in grado di rendere tutti noi uguali agli altri, anzi come l’algoritmo stesso vuole. Dove ogni passo falso viene condannato e ogni azione positiva standardizzata. Portandoci dunque a riflettere su cosa sia giusto o sbagliato.

La manipolazione della realtà e la frantumazione nazionale

Ma chi decide il declassamento e chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Ci troviamo dinanzi al più grande nemico moderno, colui che sta sopra l’algoritmo, deciso da chi offre la somma più alta. Una nuova forma di corporatocrazia e di controllo di massa? Qui il problema non risiede in ciò che viene detto, ma da ciò che viene nascosto e da ciò che viene amplificato attraverso fini politici. La libertà di parola viene in parte nascosta, ne viene azzerata la voce, proprio come in La Antenna. E tutto questo attraverso l’algoritmo.

Ne è un chiaro esempio The Great Hack – Privacy violata (2019), un documentario Netflix che indaga sullo scandalo di Cambridge Analytica. Quest’ultima mostra come dei dati raccolti illegalmente da piattaforme sociali, come Facebook, siano stati utilizzati per indirizzare una propaganda ben mirata. Una serie di video girati di nascosto, rivelano il triste segreto dell’allora Ceo Nix, scoprendo che:

“Gestiva tutta la campagna elettorale sulle piattaforme digitale di Donald Trump”

Questo fenomeno è dunque la prova che l’algoritmo non è mai neutro, bensì uno strumento perfetto per la manipolazione governativa e la destabilizzazione democratica. Un modo per farci rinchiudere nella nostra stessa bolla, che in realtà tanto nostra non è.

Ten Years: il  film censurato in Cina

E poi arriva Ten Years (2015), il film che le autorità cinesi hanno censurato nella Cina continentale, a causa dei temi politici delicati. Si tratta di un prodotto con un budget molto basso, che però fu sorprendentemente un successo. Batté difatti Star Wars-il risveglio della forza nelle sale cinematografiche del distretto Yau Ma Tei. Per poi vincere il premio come miglior film al 35º Hong Kong Film Awards. Ma al governo per la prima volta dal 1991, ne vietò la trasmissione, ora si può trovare solamente su Facebook oppure in proiezioni private. Omettendo persino la diretta televisiva dei premi. Ad esporsi è poi Shu Kei, critico cinematografico e docente dell’accademia delle arti performative a Hong Kong:

“Penso che sia stupido cancellare le trasmissioni televisive dai premi. Ma è sempre questa la reazione di Pechino quando non vogliono che la gente ne sappia di più su un argomento. Questo è un film molto importante, Il primo da decenni che affronta la realtà di Hong Kong.”

Mentre The Great Hack vuole documentare la manipolazione riguardo la  percezione attraverso i dati, Ten Years mostra la conseguenza ultima. Rivela la manipolazione della realtà stessa e della sicurezza nazionale al fine di giustificare l’oppressione.

Se La Antena temeva che la voce fosse rubata da un monopolio mediatico, Ten Years teme che la voce possa essere cancellata completamente dallo stesso stato. All’interno di uno dei segmenti, il film descrive la persecuzione degli abitanti di Hong Kong. Questi ultimi insistono nel parlare il cantonese anziché il mandarino imposto dai piani alti. La repressione linguistica equiparerebbe dunque alla repressione dell’identità culturale e di fatto alla distopia della voce silenziata.

L’utilizzo governativo della propaganda non è più distopia

Uno degli episodi più controversi è sicuramente quello che illustra l’uso governativo della propaganda. Lo stato cerca difatti di creare il caos per giustificare l’oppressione. Un evento nel quale i funzionari del governo orchestrano un finto attentato terroristico, l’eco, delle cosiddette False Flag per creare panico tra la popolazione. Il fine qual è? Il consenso per l’approvazione di una legge draconiana riguardante la sicurezza nazionale.

Questo momento supera la semplice, ma anche complessa manipolazione dei dati di The Great Hack. Qui è la manipolazione del dato fondante della realtà, dunque l’evento in sé ad essere messo sotto i riflettori. Il potere non si limita all’influenza dei voti, bensì crea una vera e propria realtà alternativa per giustificare le sue azioni liberticide. Difatti come abbiamo visto, l’impatto del film sulla realtà è diventata la prova definitiva della sua validità giornalistica. La stampa di stato cinese lo definì un film assurdo e pessimista” e, soprattutto, un “virus del pensiero”. Troppo “assurdo” e “ troppo pessimista”.

Il cosiddetto “virus del pensiero”

Il potere totalitario non teme la bomba, bensì l’informazione critica che può diffondersi tra i cittadini. Il cosiddetto virus del pensiero. La censura riguardante a Ten Years non è stata una punizione per la sua arte, bensì un implicito riconoscimento della veridicità della sua previsione distopica. L’ opera cinematografica viene ricordata non solo per la sua la narrazione distopica, bensì per averla provocata in prima persona. Si tratta di un prodotto che come altri dimostra che la libertà di espressione è il vero punto debole di qualsiasi regime. Proprio per questo il mezzo audiovisivo è così importante. Si tratta di un mezzo in grado di fare luce sulle incertezze innescate nel nostro inconscio.

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