Vincitore del Grand Jury Prize del DMZ International Documentary Film Festival e della Menzione Speciale al Film Festival di Zurigo, arriva in Italia The ground beneath our feet, il nuovo documentario di Yrsa Roca Fannberg.
Il nuovo film della regista islandese concorre questo novembre alla 66ª edizione del Festival dei Popoli, il più antico festival di documentari d’Europa, e porta lo spettatore a riflettere su delle questioni importanti: cosa ci resta negli ultimi istanti della nostra vita? Dove vaga la mente, cosa osservano gli occhi dopo che hanno visto così tanto dopo tutti gli anni passati?
The ground beneath our feet: non si parte dall’infanzia
In un momento particolare della sua vita, la regista di The ground beneath our feet ha voluto girare un documentario sulla vita e sulla quotidianità degli anziani di una casa di riposo a Reykjavík, in Islanda.
Il film inizia con una delle anziane, a letto, che ascolta il battito del proprio cuore grazie a uno stetoscopio. Ha uno sguardo dolce, gentile ed è una donna curiosa. Osserva la cinepresa e indaga la regista sul perché la stia riprendendo e su che cosa voglia raccontare. Ciò che Fannberg risponde racchiude tutta l’essenza del film:
“Un film su questa fase della vita.”
Siamo abituati a vedere sullo schermo storie che raccontano la vita partendo dall’infanzia fino al raggiungimento dell’età adulta, o viceversa, grazie all’aiuto di lunghi flashback. In questo documentario, però, non avviene nulla di tutto ciò. Non ci sono racconti malinconici su ciò che è stato, sulle vicissitudini di ciascun anziano o anziana della casa di riposo.
The ground beneath our feet ci mostra, con una semplicità, dolcezza e profondità disarmanti, le emozioni reali di chi ha già vissuto la maggior parte dei propri anni e di come si possono amare e apprezzare le piccole cose.
Grounding: le emozioni che proviamo

Nella casa di riposo, i giorni sono scanditi dal ripetersi di varie azioni: una camminata all’aria aperta, esercizio fisico, ascoltare la musica, cantare o, semplicemente, chiacchierare con le altre persone e stare con chi si ama. Talvolta, anche ricevere la visita o una chiamata dai propri famigliari.
Ciò su cui la regista decide di soffermarsi però, nello scrutare tali azioni, è altro: lo sfiorarsi a vicenda, lavarsi le mani, i baci che si scambiano una coppia di anziani, il preparare la tavola, suonare una fisarmonica o fumare in compagnia all’aria aperta tra una risata e l’altra.
L’insieme di queste scene e la scelta di inquadrare principalmente le mani, rimandano ad una tecnica chiamata grounding, da cui poi il titolo The ground beneath our feet.
Il grounding è una strategia che permette di riconnettersi al presente e vivere il “qui e ora” attraverso i nostri cinque sensi.
I segni del tempo
Con il grounding bisogna focalizzarsi su ciò che si riesce a vedere, sentire, toccare e la regista struttura l’intero film utilizzando questa tecnica, partendo dalle mani degli anziani, le quali rimandano alla vita, alla terra e sono segnate dal tempo: sono rugose, hanno le vene sporgenti, sono delicate e toccano ogni cosa con cura e amore. Il secondo senso, che è predominante nel film, è l’udito. Gli anziani ascoltano la musica dirigendo un’orchestra immaginaria, o ascoltano il suono della fisarmonica suonata a occhi chiusi da un altro anziano, o ancora, ascoltano il battito del proprio cuore o le risate delle anziane che fumano sulla panchina all’aria aperta. Il terzo, è la vista. Gli occhi degli inquilini della casa di riposo guardano spesso fuori dalla finestra. Osservano chi non c’è più e li lascia durante la notte, o scrutano e si beano del sole quando è giorno e vogliono uscire fuori.
Dunque, grazie al grounding, Fannberg mostra allo spettatore come gli anziani del centro di Reykjavík siano in pace con loro stessi e vivano la giornata attimo dopo attimo, godendo di ciascun istante e rimanendo con i “piedi per terra”.
Ciò che ne consegue è che durante la visione del documentario si ha una costante sensazione di pace, tranquillità, ma con un pizzico di malinconia e dolce-amara rassegnazione di chi sa che è al termine dei suoi giorni.
Il ciclo della vita

All’interno del documentario emerge in modo preminente una coppia di anziani, marito e moglie che interagiscono tra loro. La registra ci mostra il marito baciare la moglie, aiutarla a metterla a letto perché molto malata, metterle lo smalto e leggerle il giornale.
Parlano tanto tra di loro sul ciclo della vita, sulla morte di tante persone, su quanto si amano, e tra i loro discorsi spicca una delle frasi più belle e importanti del film, in cui si evidenzia l’importanza di guardarsi sempre negli occhi e di non smettere mai di farlo.
Ciò che ci rende umani è il riconoscersi nell’altro, apprezzare e amare il prossimo per ciò che è davvero, per ciò che trasmette, senza superficialità o giudizio. Ma anche osservare il presente e la natura allo stesso modo, per poterne gioire e godere fino alla fine. D’altronde, che cos’è la vita se non un insieme di atti unici tra loro che si susseguono e la rendono magica?