Film festival Diritti Umani Lugano

La lentezza come forma di libertà in ‘Where We Used to Sleep’

Un film che trasforma la catastrofe ambientale in un atto d’amore verso la propria terra.

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Cosa accade quando è il progresso a voler cancellare la tua casa, ma tu decidi di non andartene? E che valore possiede la memoria quando la terra stessa che ti apparteneva è stata inghiottita dal fango tossico?
Where We Used to Sleep, diretto da Matthäus Wörle e presente nel programma del Film Festival Diritti Umani di Lugano dopo il successo al DOK.Fest München, è un film che scava letteralmente nelle ferite della terra e dell’animo umano.

Ambientato nel villaggio sommerso di Geamăna, in Romania, il documentario racconta la storia di Valeria, una donna anziana che ha scelto di rimanere in un luogo dove tutti gli altri hanno dovuto oppure addirittura voluto andare via. La sua casa, un tempo viva e piena di voci, ora si affaccia su un lago velenoso di scarti minerari. Eppure, ogni mattina, lei si sveglia, rivive quei luoghi del passato e chiama ancora quel luogo “casa”.

Il diritto di restare

Restare, in Where We Used to Sleep, non è un gesto nostalgico ma un atto politico, un modo per reclamare il diritto a non sparire.

“Non voleva essere l’ultima rimasta, voleva solo vivere.”

spiega il regista, chiarendo che Valeria non è simbolo di resistenza, ma una persona che vuole continuare a esistere nel luogo che la definisce. Quel luogo che per lei rappresenta casa, la sua “Heimat”. La macchina da presa di Wörle accompagna i suoi gesti quotidiani con rispetto: accende la stufa, dà da mangiare alla mucca, apre la finestra. Sono azioni minime, ma piene di significato. In un mondo che misura tutto in velocità e produttività, restare è un atto radicale.

La sua storia si intreccia con quella di altri ex abitanti del villaggio, che tornano a trovarla di tanto in tanto. Uno di loro, ormai scrittore, ha perfino pubblicato dei libri sulla tragedia di Geamăna. Insieme ricordano i tempi in cui lavoravano fianco a fianco, ma ognuno di loro porta addosso una memoria diversa.
È uno dei momenti più belli del film: la consapevolezza che anche se la catastrofe è la stessa, il modo di affrontarla è personale. Ognuno di noi ha reagito a modo suo: sembra dirci Wörle. Perché la memoria è sempre stato un fatto individuale.

Il diritto alla lentezza

Nell’immaginario cinematografico, la fuga verso la città è sempre stata il simbolo del progresso, ma Wörle capovolge questa narrativa. Al contrario de La folla di King Vidor, il contrasto tra ruralità e modernità diventa il centro del racconto. Non viene mostrata la scelta della città, ma la non-scelta di dover appartenere alla folla. Tuttavia, mentre in diversi film del passato la città rappresentava un sogno, qui diventa una minaccia. La stessa minaccia sentita in Aurora di F.W. Murnau.

Valeria sceglie di rimanere, non per ignoranza o paura, ma per affezione alla lentezza.

“Volevo rappresentare un ritmo di vita che il cinema moderno spesso ignora.”

ha spiegato Wörle. La sua quotidianità è fatta di silenzi, di pause, di tempo sospeso. E in questo ritmo lento, quasi ancestrale, il film trova una sua forma di poesia. La lentezza diventa una forma di libertà. Non è resistenza passiva, ma una diversa idea di futuro: quello in cui il progresso non è sinonimo di movimento, ma di ascolto.

Valeria e gli altri: chi resta e chi parte

Sebbene viva in isolamento, Valeria non è sola. Ogni tanto arrivano suo figlio e sua nipote: portano notizie, un sorriso, qualche dono. La loro presenza rompe il silenzio, ma anche mostra che il tempo non si è fermato per nessuno. Ognuno, a suo modo, è andato avanti.

Ed è qui che Where We Used to Sleep trova una delle sue intuizioni più delicate: rimanere non significa restare indietro. Valeria non si è mossa, ma è cambiata lo stesso. Ha accettato il ritmo del suo luogo, ha imparato a convivere con l’assenza, con la memoria, con il paesaggio che muta. La macchina da presa registra queste sfumature con pudore, alternando primi piani intimi a campi lunghi in cui la figura della donna diventa parte del paesaggio, come se il corpo stesso si fosse fuso con la terra.

Poi Valeria non è sola, la vediamo accompagnata dalla sua compagna fidata, non il cane ma la mucca. Păuna diventa parte del suo quotidiano, la segue, l’ascolta, le fa compagnia.

Natura, memoria e dissolvenze in Where We Used to Sleep

Il film si muove in una costante tensione tra il visibile e l’invisibile. La fotografia di Moritz Dehler e Max Kölbl lavora su toni metallici e terrosi, quasi pittorici, per rendere il paesaggio un organismo vivo. Il lago tossico è insieme minaccia e bellezza.

“Questo era il mio villaggio. Ora è solo un’ombra sott’acqua.”

dice Valeria in una delle frasi più toccanti del film. In quelle parole c’è tutta la poetica di Wörle: un cinema che osserva come la materia trattiene la memoria. Geamăna è un villaggio sepolto, ma ancora pieno di presenze. Gli alberi sommersi, le case che spuntano dall’acqua, i suoni distorti del vento: tutto diventa parte di una sinfonia che parla di perdita e sopravvivenza.

In questo modo, Where We Used to Sleep affronta anche la questione ambientale, ma senza ricorrere a proclami o statistiche. L’ecologia di Wörle è intima, fatta di sguardi e di gesti, non di slogan. Il disastro minerario non è solo una ferita del paesaggio, ma una metafora della perdita di equilibrio tra uomo e natura. Valeria non denuncia: vive. E nel suo vivere quotidiano, tra il fango e la luce, il film ci ricorda che la vera sostenibilità nasce dall’ascolto silenzioso della terra.

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