Non fermarti, suona, canta, agisci, se ti fermi perdi il flusso il ritmo il battito, lascia che lo strumento si fonda con la tua pelle, facci l’amore con quei tasti, percepiscine la forza. Entra nella trance in cui la musica ti trascina, la tua mente non può porre resistenza: sei già dentro, stai sentendo, stai ballando, stai godendo.

Just Play and Never Stop, questa è l’unica regola
La carica di energia che questo ultra-documentario di Jonny Costantino – prodotto da Fondazione per la Cultura Torino e Salamander Giant – riesce a portare non ti permette di star fermo sulla poltroncina. Guarda come ti osserva Roscoe Mitchell, lui a ottantaquattro anni suona con il fuoco di un quattordicenne che ha appena scoperto la masturbazione, tu invece nel pieno delle tue forze, vorresti sederti al cinema e semplicemente osservare lo schermo mangiandoti quei maledetti popcorn? No, questo film e i suoi protagonisti non te lo permettono.
Non sei semplicemente uno spettatore del documentario sul Torino Jazz Festival, sei un corpo attivo presente alle esibizioni più dinamiche ed energetiche del mondo. E non è tanto per dire: i musicisti in quelle performance sono disposti a spezzarsi, letteralmente, la schiena. Ndoho Ange, l’ipnotica creatura che accompagna con la sua voce e con il suo corpo i live di Hamid Drake e Majid Bekkas, racconta che in uno dei suoi balli dinamogeni non si accorse di essersi rotta il coccige, e che l’unica soluzione al suo dolore dopo mesi di ricovero non furono le medicine ma, tornare a danzare in live, e infatti si curò definitivamente in performance, ballando, nello stato di trance in cui la musica di Hamid e Majid riuscì a portarla.
La musica al cinema
Il corpo per questo tipo di jazzisti è un fattore sacro – come per Michele Rabbia, il quale ci ricorda che il suono deriva dal gesto – è l’aiuto nello svolgimento musicale. Le mani di Rabbia diventano superficie da percuotere, così come le sue braccia sono allungamenti della batteria per poter avere ancora più stratificazioni sonore. Dan Kinzelman parla della fusione che si ha tra corpo e strumento. Quando viene raggiunta a regola d’arte il musicista è in pieno controllo dello strumento e può finalmente piegarlo alle sue volontà. Raggiungere quest’obiettivo non è facile, ma è necessario, per distinguersi e difendersi dalla musica computerizzata, tecnologica, artificiale.
La musica non è solo matematica, se fosse solo inchiostro raffreddato su un pentagramma non sarebbe un’arte, non ci farebbe viaggiare, non ci farebbe ballare. La musica è il ritmo interno di ognuno di noi, e chi fa musica deve seguire ancor prima delle note, il suo flusso interiore. I protagonisti di questo film sono si musicisti jazz, ma non va fatto l’errore di standardizzarli, anzi qui vengono messe in risalto le differenze che un musicista ha rispetto a un altro, le scelte autonome, radicali, e personalissime della propria musica. Il risultato, quindi, è la scoperta di un genere musicale che va oltre il genere, che va oltre lo schema, oltre, ma tanto oltre, le aspettative.

La troupe come occhio in movimento
Jonny Costantino e le sue due abili camere Filippo Romanelli e Manuel Benati sono riusciti a farci entrare negli occhi incantati di Mathieu Amalric, nelle rughe di Roscoe Mitchell e nei polmoni resistenti di Tamar Osborn, con rispetto degli artisti e dell’arte a cui ci stanno rendendo partecipi.
È un film che vuoi risentire oltre che rivedere, è come la musica di Peter Brötzmann, è Free.
Il film documentario sarà proiettato il 27 ottobre (ore 21) al Jazz Club di Ferrara, in collaborazione con il Bologna Jazz Festival, introdotto dal regista e dal musicologo Stefano Zenni.